Una mappa georgafica del Nagorno Karabakh

© fifg/Shutterstock

In questa tesi di laurea viene analizzato come il recente conflitto in Nagorno Kharabakh sia conseguenza diretta delle difficoltà interne dei paesi coinvolti

30/08/2021 -  Micol Benini

Il conflitto del Nagorno-Karabakh spesso è stato considerato come una rivendicazione territoriale mossa dall’inconciliabilità delle troppe differenze tra armeni e azeri; come una pretesa storica, culturale e religiosa capace di ripristinare la potenza e le valorose origini di una nazione. Risulta però riduttivo sintetizzare la complessità di una guerra pluridecennale in fattori meramente ideologico-identitari. L’analisi qui presentata, quindi, offre ulteriori prospettive di ricerca: in particolar modo si vuole dimostrare quanto il secondo conflitto del Nagorno-Karabakh, scoppiato il 27 settembre del 2020, sia stato una conseguenza specialmente di criticità nazionali irrisolte e soprattutto aggravate dalla pandemia da coronavirus.

Nonostante la firma del cessate il fuoco a Biškek nel 1994 da parte di Armenia ed Azerbaijan a conclusione della prima guerra del Nagorno-Karabakh, non si favorì una condizione di stabilità: l’accordo non prevedeva clausole ben precise e rendeva la pace tra i due paesi inevitabilmente precaria oltre che influenzata e manipolata dagli interessi delle forze internazionali in gioco. Gli attacchi tra i due paesi infatti non cessarono, anzi divennero molto più aggressivi e frequenti specialmente da parte dell’Azerbaijan verso l’Armenia.

Attraverso lo studio di dati economici, politici, sociali e sanitari tra il 1994 ed il 2020 qui trattati, è possibile evidenziare una connessione tra il verificarsi di crisi politiche interne, l’inefficacia dei programmi sociali a sostegno della popolazione più povera e le crisi economiche. Tali aspetti non hanno fatto altro che rendere la situazione interna più incerta e problematica, alla quale si sono aggiunte poi le difficoltà provocate dalla pandemia. Celando in maniera più o meno consapevole le problematiche interne, complice anche l’utilizzo dei social network per confondere l’opinione pubblica, non è stato poi complicato rianimare tensioni latenti, specialmente per l’Azerbaijan.

Ecco allora che il senso di incertezza nella popolazione causato dall’assenza di beni materiali per garantire il benessere dei cittadini ha trasformato la paura in un valido strumento per il potere politico, in grado di giustificare qualsiasi violenza per la propria tutela individuale e collettiva. La minaccia non è stata riconosciuta né veicolata come mancata gestione economica, sociale e politica della nazione ma è stata ridimensionata sull’Altro, il nemico culturalmente diverso. Il ruolo della retorica nazionale nella lettura della guerra doveva necessariamente essere quello di sublimare i malcontenti della popolazione verso un problema esterno, costruendo luoghi per dare vita a credenze sociali, ideologie e miti come quello dell’identità. La seconda guerra del Nagorno-Karabakh si colloca perciò in una situazione molto più complessa che non può essere pensata semplicemente come “un conflitto irrisolto” o un “conflitto etnico-religioso” ma come uno scenario ricco di elementi su cui la vita dell’individuo e della collettività si plasmano.


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