(© Gabor Kenyeres/Shutterstock)

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Nella vita di rifugiati e migranti, l’acqua calda e il sapone, la necessità di evitare contatti fisici, l’uso dei disinfettanti e altri temi legati all’epidemia di coronavirus passano in secondo piano di fronte ad altri problemi quali fame, manganelli della polizia, dita congelate, neve e ghiaccio insistenti

03/04/2020 -  Ivana Perić

(Originariamente pubblicato dal portale H-Alter , 26 marzo 2020)

Nel quartiere di Dugave, situato alla periferia di Zagabria, recentemente è stata costruita una barriera di filo spinato attorno all’albergo Porin, trasformato qualche anno fa in centro di accoglienza per richiedenti asilo. Per la costruzione della barriera, prevista da tempo, erano già state stanziate 693mila kune (circa 90mila euro), e la pandemia di coronavirus è stata usata come pretesto per un’immediata e perentoria realizzazione del progetto.

“I lavoratori sono arrivati con gli attrezzi e hanno cominciato a costruire una barriera intorno a Porin. Quella che finora era una prigione metaforica, in questo momento sta diventando una vera e propria prigione recintata. La costruzione della barriera procede in modo silenzioso, senza fornire alcuna informazione alle persone che vivono nel campo, senza spiegare loro cosa esattamente significherà tutto questo per la loro vita, e senza alcuna voce di protesta da parte delle ong locali. È il momento ideale: la minaccia sanitaria ha portato alla proclamazione dello stato di emergenza, che rappresenta un’occasione ideale per distogliere l’attenzione da politiche repressive e restrittive che vengono attuate dietro le quinte”, si legge in una lettera firmata da alcuni richiedenti asilo ospitati a Porin.

“Non possiamo impedire la costruzione della barriera, ma possiamo almeno alzare la voce per non permettere che [la vicenda] passi completamente inosservata. Vogliamo dire che abbiamo notato i lavoratori, abbiamo notato che hanno cominciato ad alzare la recinzione, disumanizzandoci e umiliandoci ancora una volta, e noi siamo arrabbiati e stanchi di tutto; siamo stanchi di essere prigionieri di un’Europa razzista, prigionieri delle barriere e della violenza; siamo stanchi di essere trattati come se non fossimo esseri umani”, concludono i firmatari della lettera.

Una persona ospitata a Porin, sospettata di essere stata contagiata da coronavirus, è stata posta in isolamento nel centro di detenzione di Ježevo. “Perché questa persona, alla quale è stata concessa la protezione internazionale e che gode di quasi tutti i diritti riconosciuti ai cittadini croati, non è stata posta in isolamento in una delle strutture che il comune di Zagabria ha predisposto a tale scopo, come quelle sul monte Sljeme?”, chiedono i membri dell’iniziativa civica “Dobrodošli” [Benvenuti].

La risposta è ovvia: i rifugiati e migranti, anche quando ottengono, “nero su bianco”, la protezione internazionale e i diritti che ne conseguono, restano pur sempre cittadini di terz’ordine.

Lo confermano ogni giorno di più le misure adottate nel contesto dell’attuale pandemia, specificatamente rivolte ai rifugiati e migranti, non solo nei paesi dei Balcani, ma in tutta Europa. Qualche giorno fa a Lipa, una località situata tra Bihać e Bosanski Petrovac, in Bosnia Erzegovina, è iniziata l'installazione di tende in cui dovrebbe essere sistemata una parte di rifugiati e migranti che attualmente vivono in edifici abbandonati o nelle strade di Bihać.

La giornalista Nidžara Ahmetašević, impegnata attivamente nell’inizitiva “Pomoć izbjeglicama u Bosni i Hercegovini” [Aiuto ai rifugiati in Bosnia Erzegovina], ha commentato così l’attuale situazione nel paese: “Oggi, mentre l’intero mondo sta vivendo probabilmente uno dei momenti più difficili della storia, il governo della Bosnia Erzegovina e quello del cantone Una Sana – invece di cercare di aiutare, di tranquillizzare tutte le persone e di sollecitare la solidarietà – stanno creando veri e propri lager. Ovviamente, si sentono incoraggiati da quello che sta facendo l’UE e dal modo in cui molti stati membri trattano i rifugiati. Questo comportamento è talmente disumano da poter essere paragonato solo a quello che era accaduto nei primi anni Novanta sul territorio della Bosnia Erzegovina. La Krajina è semivuota. Non mancano le strutture in cui i rifugiati potrebbero essere sistemati in condizioni umane, dagli alberghi che ora sono vuoti, e lo resteranno per molto tempo, alle scuole che probabilmente non saranno riaperte prima dell’inizio del prossimo anno scolastico. Lo scopo delle azioni intraprese dal governo non è solo quello di umiliare queste povere persone, ma anche di inviare un messaggio a tutti i cittadini della Bosnia Erzegovina: chi non dovesse rispettare i dettami del governo, verrà abbandonato a se stesso”.

Negli ultimi giorni molti supermercati a Bihać hanno vietato l’ingresso ai migranti, rendendo così ancora più difficile l’acquisto di generi alimentari per chi già soffre abbastanza nelle attuali circostanza emergenziali. “Non basta dire che ci hanno reso più difficile l’acquisto di alimenti, bisogna dire che ci stanno affamando, ci stanno uccidendo”, afferma Faris, un ragazzo afghano che ormai da mesi vive in un edifico abbandonato a Bihać, dove è costretto a dormire sul pavimento di cemento.

Nei campi ufficiali di accoglienza non c’è posto per tutti i rifugiati e migranti, la maggior parte dei quali dipende dall’aiuto di pochi volontari locali, ormai esausti, che si organizzano da soli e non ricevono più alcun sostegno da altri paesi a causa della chiusura delle frontiere. Da qualche giorno in Bosnia Erzegovina è in vigore anche il coprifuoco; diventa sempre più complicato uscire di casa, muoversi in città e fornire aiuto a chi ne ha bisogno. Nei giorni scorsi faceva molto freddo, era persino nevicato.

Mentre l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM) si vanta sul suo profilo Facebook, affermando che “garantisce i rifornimenti quotidiani di prodotti disinfettanti nei centri [di accoglienza], organizza azioni di pulizia, si impegna affinché venga rispettata la distanza tra persone durante la distribuzione di pasti e generi di prima necessità, insiste affinché nelle lavanderie dei centri di accoglienza il lavaggio di lenzuola e coperte venga eseguito più frequentemente, e organizza riunioni informative rivolte ai dipendenti per aggiornarli sulle raccomandazioni fornite dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità”, le immagini che arrivano dal centro di Bira, gestito dall’OIM, mostrano un gruppo di migranti che stanno di fronte al centro, sulla neve, schiacciati l’uno contro l’altro, mentre nel centro vengono eseguite le operazioni di disinfezione.

“Io sto male fuori, ma nemmeno nei campi si sta meglio. I miei amici che vivono in un campo dicono che hanno fame, ricevono sempre meno cibo, non possono uscire a causa del virus, e quindi non possono comprare niente né ottenere gli aiuti distribuiti dai volontari. Il cibo che ricevono non fa bene al sistema immunitario, solo pane con un paté, e pasta ogni giorno”, racconta Faris.

Nella vita di rifugiati e migranti, l’acqua calda e il sapone, la necessità di evitare contatti fisici, l’uso dei disinfettanti e altri temi legati all’epidemia di coronavirus passano in secondo piano di fronte agli altri problemi, quali la fame, i manganelli della polizia, le dita congelate, la neve e il ghiaccio insistenti.

A Velečevo, nel comune di Ključ, c’è un posto di controllo dove nel corso dell’ultimo anno sono stati fermati molti migranti diretti verso Bihać. Qualche giorno fa la Croce Rossa di Ključ ha reso noto che una bambina di sette anni e i suoi genitori, provenienti dall’Iran, sono stati trattenuti a Velečevo per dieci giorni. All’inizio con loro c’erano anche altri migranti, una trentina, tutti sistemati in una piccola tenda allestita all’aperto, senza accesso ai servizi igienici di base.

In questo momento sembra quasi ridicolo parlare alle persone come Faris della campagna #ostanidoma [resta a casa]. Anche alcuni cittadini serbi hanno recentemente sperimentato sulla propria pelle la dura realtà dei campi per rifugiati. Nell’ambito delle misure di contenimento della pandemia di coronavirus, il governo serbo ha predisposto due campi, uno a Morović e l’altro a Subotica, per la prima accoglienza di cittadini serbi in rientro dall’estero. Negli ultimi anni la struttura di Subotica è stata utilizzata per l’accoglienza di migranti.

“Le camere, ognuna con dieci letti a castello, sono piccole, tutti schiacciati l’uno contro l’altro. I bagni sono in comune: due, tre wc e altrettante docce, in pessime condizioni. Ci sono insetti in ogni camera. I cuscini hanno delle macchie, le lenzuola sono bucate”, così uno dei cittadini serbi rientrati recentemente dall’estero ha descritto le condizioni nel campo di Subotica. “Nella stanza comune fa freddo, e anche nei wc e nel bagno. Io mi ero messo tre paia di calzini e le scarpe”, si è lamentato un altro ospite del centro. Reagendo alle numerose lamentele dei cittadini, il presidente serbo Aleksandar Vučić ha commentato ironicamente che dovrà inventare qualcosa di meglio.

Forse le autorità dei paesi dei Balcani si inventeranno davvero una soluzione migliore, e dovrebbero farlo perché ci sono tanti alberghi, ostelli, sale per conferenze, scuole, centri sportivi e ricreativi che in questo momento giacciono vuoti. Tuttavia, il problema è che, anche se dovesse essere trovata una soluzione migliore, potranno beneficiarne solo “i nostri”.

La vita di rifugiati e migranti rimarrà la stessa: il divieto di ingresso nei supermercati, i fili spinati, la mancanza di acqua calda e sapone, i campi affollati, una crosta di pane per cena, le dita congelate e sguardi freddi. E chi oserà ribellarsi, finirà – come ha detto Nidžara Ahmetašević – per essere abbandonato a se stesso. Com’è che recita la definizione di razzismo (fascismo)?


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