Il viaggio di una giornalista di Oslobođenje, inviata nella Bosnia centrale al tempo della Jugoslavia socialista, tra cavalli selvaggi e grigi funzionari di partito

18/05/2016 -  Azra Nuhefendić

Tra i diversi candidati al posto di corrispondente dalle Nazioni Unite fu scelto Joza F. Aveva quello che agli altri aspiranti mancava: una zia che viveva a New York, e che poteva ospitarlo.

All’inizio degli anni Sessanta, la Bosnia era un paese povero, il quotidiano di Sarajevo non poteva pagare un alloggio in affitto per il suo corrispondente a New York, perciò il fatto che la zia potesse ospitarlo fu decisivo.

Per i giornalisti accreditati presso le Nazioni Unite, all’epoca, si organizzava un grande ricevimento annuale. I nuovi arrivati, entrando nella sala, per consuetudine, si presentavano esclamando ad alta voce il proprio nome, cognome, la testata e la tiratura del giornale. E così fece anche Joza: “Joza F., Oslobođenje di Sarajevo, trentamila copie.”

Lo stesso Joza raccontava che, in quell’occasione, poco dopo essersi presentato, mentre si aggirava tra corrispondenti, politici, ambasciatori e camerieri, fu preso in disparte da un collega il quale in modo confidenziale e amichevole gli disse: “Non dire mai più che sei corrispondente di un giornale con una tiratura così irrilevante. La gente potrebbe pensare che sei una spia e che il titolo di corrispondente è solo una copertura. Nessuno al mondo potrebbe avere un corrispondente dalle Nazioni Unite stampando solo alcune decine di migliaia di copie.”

Eccetto la Bosnia!

Dell’evento si parlò per anni, e quando lo sentii per la prima volta, mi parve una barzelletta inverosimile. Invece, una cosa analoga capitò anche a me, in un ambito più piccolo e sul terreno nazionale, in Bosnia.

La stabilizzazione economica

Mi avevano mandato a Kupres, una cittadina della Bosnia centrale, come inviata speciale, ma solo perché mia sorella Esa viveva nella città vicino, a Bugojno. Dormivo da mia sorella, feci il servizio in una giornata, e non occorrevano le spese per il pernottamento.

Negli anni Settanta, la Jugoslavia stava attraversando una grave crisi economica. Da noi però la parola “crisi” non veniva pronunciata mai e da nessuno. Presumibilmente per non corrompere l’idea che la nostra società era il massimo della democrazia e della prosperità umana, e come tale non poteva soffrire dei mali “tipici dei paesi capitalisti”.

Nei discorsi dei politici, sui giornali e nelle notizie della radio e della televisione, non si parlava della crisi, ma della “stabilizzazione economica”. Erano precauzioni inutili, perché “la stabilizzazione” ci colpiva quotidianamente: mancavano la carta igienica, l’elettricità, la benzina, l’olio, la farina, lo zucchero, il caffè, gli assorbenti e quant’altro.

I membri del partito comunista erano invitati a dare l’esempio della “stabilizzazione” che, negli altri paesi, si chiama “risparmio”. Ai media fu decretato di promuovere la campagna, e i giornalisti dedicavano ampi servizi su come e cosa si faceva nelle piccole città riguardo alla “stabilizzazione economica”.

Da Sarajevo a Bugojno ci vogliono circa tre ore di autobus. La strada è una statale, di quelle costruite negli anni Sessanta grazie al cosiddetto samodoprinos. La parola vuol dire qualcosa come “autotassazione”, era una misura imposta che andò avanti per anni.

Stretta e piena di curve, la strada si dirige verso la Bosnia centrale, passa per Busovača (che nella lingua colloquiale è sinonimo di luogo retrogrado, provinciale e insignificante), poi Vitez, Turbe. Scorrono le cittadine anonime, monotone e quasi identiche. Solo con la guerra, negli anni Novanta, abbiamo scoperto che in tutte queste cittadine di provincia erano collocate fabbriche militari.

Il pullman si ferma a Travnik, tipica kasaba, parola turca che significa “cittadina di provincia”. Su entrambe le parti della via principale, le case sono basse, costruite senza alcun ordine e nessuna bellezza. I palazzi nuovi nascondono i veri gioielli architettonici pervenuti dai tempi passati, come i resti della fortezza medievale, diverse moschee, le scuole coraniche e le tradizionali abitazioni bosniache.

Per la sua posizione geografica, Travnik non fa eccezione in Bosnia: è incastonata nella stretta valle del fiume Lašva, con alti monti intorno. La sua posizione nel passato era considerata strategica. Durante il periodo dell’occupazione ottomana, la città fu residenza del Visir, il governatore del Sultano. Qui è ambientata la storia del romanzo del premio Nobel Ivo Andrić: La cronaca di Travnik.

Dopo quindici minuti di sosta si riparte. Davanti a me i nuovi passeggeri, seduti in tre su sedili da due, chiacchierano, ridono e parlano senza badare se qualcuno li ascolta. Capisco che sono paesani, muratori, e che stanno tornando a casa dopo mesi di lavoro stagionale sulla costa dalmata, in un campo nudista. Si stanno ancora meravigliando di quanto visto, delle donne nude che passeggiavano “con disinvoltura”, degli uomini super attrezzati… Si interrompono l’un l’altro: “Hai visto quella tedesca di Amburgo?”, e poi la descrive come vuole il più comune stereotipo: grassa, con delle curve improbabili e dalla sessualità esagerata. L’altro gli ricorda di “quel francese che, con la scusa di essere occupato in qualcosa, rimaneva nella camera e se la faceva con le ragazze e le mogli degli altri”. “Giustamente”, commenta l’altro e, senza nascondere l’invidia, descrive le doti eccezionali del francese. Vanno avanti con questi discorsi per circa un’ora. Scendono a Vakuf, un’altra kasaba bosniaca, ma prima si giurano reciprocamente di non proferire parola di quanto visto alle proprie mogli.

Bugojno

Mi fermo a dormire a Bugojno, da mia sorella, che vive e lavora lì. Negli anni Settanta era considerata una città prosperosa, grazie all’industria militare. La sua fama, però, l’aveva ottenuta perché il presidente Tito si recava spesso lì per andare a caccia.

I boschi e le montagne bosniache, spesso di una bellezza rara e dalla natura intatta, non servivano solo per mascherare le fabbriche militari, gli aeroporti sotterranei e i bunker, ma erano e sono ancora ricchi di animali selvaggi, come gli orsi, obiettivi preferiti di un eccellente cacciatore: il presidente Tito.

Ci veniva così spesso, che per Tito fu costruita a Bugojno la villa “Gorica”. Si diceva che i bosniaci catturassero l’orso in anticipo, e lo tenessero per il presidente. Giravano barzellette su vari politici bosniaci che tenevano personalmente con le proprie mani l’orso finché Tito, ormai vecchio, non lo uccideva.

Dopo la caccia, il presidente incontrava i politici bosniaci. Non è chiaro se questi incontri avessero anche rafforzato il legame e la fiducia tra Tito e la Bosnia. Fatto sta che, negli ultimi anni della sua vita, Tito si fidava sempre di più dei burocrati della Bosnia Erzegovina.

Da Bugojno a Kupres ci vuole mezz’ora di macchina. Ma se nevica non si passa per giorni. La strada taglia in due una montagna boscosa di fitti e alti pini. Circa a metà strada bisogna passare per un valico detto “Kupreska vrata” (porta di Kupres). Mai visto un posto che corrisponda così tanto al proprio nome. Durante l’inverno basta quel poco di neve per far sì che la “porta” si chiuda al traffico.

Passato il valico, la strada scende in fretta e sbocca in un vasto altopiano, Kupresko Polje (il campo di Kupres), una delle quattro pianure carsiche della Bosnia Erzegovina occidentale.

Kupresko Polje si estende su una superficie di 93 kmq ad un’altezza di 1.200 metri, ed è circondato ovunque da alte montagne. Proseguendo dritto si arriva alla costa dalmata.

Sull'altipiano

Sul bordo dell’altipiano c’è l’omonima città di Kupres. Piccola, di forma circolare. Si accosta al margine occidentale della pianura come se avesse paura di esporsi a quella vastità piatta che non ti dà riparo dal vento e dalla neve.

Il pullman si ferma, per un istante, e fugge da quel posto isolato. Sono l’unica a scendere. Mi giro intorno, non c’è anima viva. Seguo con lo sguardo il pullman che si allontana sulla strada dritta, in mezzo alla pianura, diventando sempre più piccolo fino a trasformarsi, all’orizzonte, in un puntino nero.

Nel centro della città c’è una piazza rotonda, del diametro di 50 - 70 metri al massimo, e nel mezzo un giardinetto con le rose. Intorno alla piazza, le case a due piani. Su una è esposta la bandiera statale. È la sede del comitato locale del Partito Comunista (PC).

Mi presento, mi stanno aspettando. Il primo incontro è con il segretario del comitato locale del PC, un certo compagno Mile. Parla piano, con voce monotona elenca le parole senza cambiare espressione del volto. Mentre parla, fissa la penna che gira tra le dita. Non sa cosa dire. Ripete le frasi già scritte nei lunghi e noiosi rapporti del partito: “bisogna”, “dobbiamo”, “di sicuro”, “al più presto”. Macché stabilizzazione economica! A Kupres avevano appena costruito una fabbrica, così, solo per avere un’industria qualsiasi, senza neanche la materia prima. E adesso non sanno cosa fare, non possono né chiudere né andare avanti, la fabbrica “produce” solo perdite.

Poi lo saluto, vado a parlare con il sindaco e il presidente del Socijalistički savez (Alleanza Socialista). Era un’organizzazione che, ufficialmente, doveva raccogliere vari pareri e interessi della società al di fuori del PC. La sede è dall’altra parte della piazzetta, Mile insiste per accompagnarmi.

Usciamo, davanti alla porta è parcheggiata una “Mercedes” nera, la macchina preferita dai nostri politici. Il compagno Mile mi apre la portiera e insiste per darmi un passaggio. Per fare solo 50 metri da una casa all’altra! Stupita, non riesco a rifiutare. Ci voleva più tempo per sedersi e mettere la macchina in moto che attraversare la piazza a piedi.

Finisco il lavoro nel primo pomeriggio, vado alla stazione dei bus. Lo sportello è chiuso, intorno non si vede nessuno. Aspetto un po’, non succede nulla. Busso alla porta di una casa privata e chiedo se c’è qualche bus per Bugojno. La signora ride: “Ma che Bugojno, cara, da qui fino a domani mattina non si va da nessuna parte, se non si ha l’auto”.

Mi vergogno all’idea di tornare dagli interlocutori per chiedere un passaggio. Lascio la città e mi metto sul ciglio della strada ad aspettare. Tornerò in autostop, penso.

Passa un’ora e non si vede neanche una macchina. Comincio a preoccuparmi. Fisso l’orizzonte con la speranza di vedere un’auto in lontananza. Non si muove nulla, eccetto il vento, che è costante. A Kupresko polje il sole tramonta presto, la temperatura precipita in fretta. È luglio, ma comincio ugualmente a sentire un po’ di freddo.

Se non fossi preoccupata per come tornare a Bugojno, potrei godermi il paesaggio. A perdita d’occhio si estende un campo quasi perfettamente piatto, coperto d’erba, l’aria è limpida, arricchita dal profumo delle erbe aromatiche. Il silenzio è spaziale.

I cavalli selvaggi di Kupresko Polje

All’improvviso ho la sensazione di non essere sola. Mi volto e, per lo spavento, indietreggio di un passo. Là, vicinissimo, non saprei dire con certezza quanto distante, c’è un cavallo che mi fissa.

L’animale mi guarda con attenzione e curiosità palese. Come se si chiedesse: “E tu cosa ci fai qui nel mio regno?” Mi fissa con quegli occhioni grandi e intelligenti, con uno sguardo penetrante e di sfida. Bello, forte, sembra una statua di marmo, se non ci fosse il vento a muovere i peli della sua criniera lunga e spettinata.

Per un momento ci fissiamo, stupiti l’uno dell’altra. Mi sembra di vivere una scena da film: la figura del potente animale in primo piano, e sullo sfondo la verde vasta pianura che, lontano nell’infinito, si abbraccia con il cielo perfettamente blu.

Il cavallo, come se fosse impaziente, batte lo zoccolo sinistro per terra. Adesso, penso, quello si trasformerà in una principessa bellissima, come in una favola. Ma si è solo stancato dell’incontro improvviso. Con una mossa decisa l’animale tira la testa all’indietro, la criniera sventola e lo fa assomigliare a una creatura mitologica, emette un nitrito e si allontana galoppando. Non ho sentito il rumore dei suoi passi. “Per il vento” mi spiegheranno dopo.

Era uno dei cavalli selvaggi di Kupresko Polje. Sono i discendenti degli stalloni che, negli anni Sessanta, la gente locale non voleva e non poteva tenere più, e così li rilasciava in natura. In quegli anni molte persone, dalla Jugoslavia, andavano a lavorare nell’Europa occidentale. In Germania li chiamavano “gastarbeiter”, che significa lavoratore in visita. Questa parola da noi, ancor oggi, ha una connotazione negativa. Indica gente rozza, ignorante, senza cultura ma con soldi da spendere.

I nostri “gastarbeiter” lavoravano in Germania, mentre a casa loro mancava la manodopera. Inoltre, con i soldi guadagnati, compravano macchine agricole. Di conseguenza i cavalli erano diventati superflui, inutili.

Ai paesani dispiaceva uccidere gli animali, e così li liberavano. I cavalli liberi si sono arrangiati benissimo. Dai primi settanta cavalli, il numero, con gli anni, è cresciuto a 150.

Durante l’estate la mandria si divide in gruppi più piccoli, si arrangiano con il cibo e l’acqua. Sbucano all’improvviso, bellissimi, liberi e imprevedibili, e spariscono come il vento. Ogni tanto attraversano la statale. I rari passanti, impauriti per aver evitato lo scontro, e increduli di aver realmente visto dei cavalli, frenano l’auto bruscamente, escono e cercano di vedere e capire cosa sia successo. Ma della mandria, un attimo dopo, si vede solo una nuvola che si allontana.

Durante l’inverno i cavalli selvaggi di Kupresko Polje si ritirano, insieme, in un’unica mandria, sulle montagne che circondano l’altopiano per ripararsi dal vento e dalla neve. Gli esperti dicono che nel branco esiste e si onora una gerarchia precisa, basata sull’età e sul sesso degli animali.

Con le spalle rivolte verso la strada, osservo la pianura nella direzione in cui è sparito il cavallo. Cerco di ricostruire, nella memoria, tutto quello che ho appena visto. Sapevo che a Kupresko Polje c'erano i cavalli selvaggi, ma come molti prima e dopo di me, non mi aspettavo di vederli.

Poi sento un rumore, mi volgo verso la strada, e vedo un camion che si avvicina. Sono così confusa che non alzo neanche il pollice per fermarlo. L’autista, però, si ferma comunque, abbassa il finestrino e mi fa: “Dove si va, bellezza?”

Hmm, non mi piace il suo aspetto né il suo modo di rivolgersi a me. Non sono una bellezza, ma una giornalista del più importante quotidiano della Bosnia Erzegovina. Ma se non salgo sul camion, come me ne vado da questo posto?, penso tra me e me. “Bugojno”, rispondo velocemente. “Monta su, bellezza”, dice quello, e apre la portiera.


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