(Foto Cirox, Flickr)

La crisi politica in Bosnia Erzegovina nell'anno delle elezioni. Il bilancio del 2009 e l'analisi degli ultimi eventi. La condanna di Dayton da parte della Corte Europea per i Diritti dell'Uomo, la forza dell'etnopoli

29/01/2010 -  Andrea Rossini

Il 21 gennaio scorso il governo della Republika Srpska (RS), l'entità della Bosnia Erzegovina a maggioranza serba, ha dichiarato di voler organizzare nel mese di febbraio un referendum sugli accordi di Dayton (FENA, 22 gennaio). Il presidente croato uscente, Stipe Mesić, ha affermato che nel caso in cui il referendum mirasse alla secessione dalla Bosnia Erzegovina, come più volte minacciato dal Primo ministro della RS Milorad Dodik, invierebbe l'esercito oltre la Sava. Il presidente serbo, Boris Tadić, ha gettato acqua sul fuoco dichiarando alla televisione di Sarajevo OBN che la Serbia non adotterà alcuna decisione contraria all'integrità della Bosnia Erzegovina. I fuochi d'artificio si sono conclusi con le dichiarazioni dello stesso Dodik, che ha confermato il referendum su Dayton chiarendo però che un voto sull'indipendenza della RS in questo momento "non è all'ordine del giorno. Vedremo come si sviluppa la situazione" (Danas, 25 gennaio).

Il balletto sul referendum per l'indipendenza della RS continua da anni. E' una danza macabra che va in scena nei momenti di maggiore tensione politica, in Bosnia o nella regione. Viene usato come minaccia per rafforzare le rispettive posizioni, nessuno sembra mai crederci davvero. Ci sono però due problemi. In una situazione di crisi crescente la parola d'ordine salvifica, evocata dai leader, viene alla fine pretesa dagli elettori, dalla base. I leader nazionali finiscono così per essere intrappolati dalla loro stessa retorica, secondo una partitura già vista nella regione e fuori dopo l'89 (1). Il secondo problema è rappresentato dalla forza simbolica della parola "referendum". Un incubo, nei Balcani. E' la divisione sulla linea amico/nemico, la conta che ha preceduto i massacri del periodo 1992-1995. Una parola gravida di conseguenze.

Secondo diversi analisti (cfr. in particolare Srečko Latal in Bosnia Faces Critical Challenges in 2010, BIRN, Sarajevo, 21 gennaio 2010), "dopo 15 anni di intensa azione internazionale, la Bosnia sta cominciando a disintegrarsi. I serbo bosniaci minacciano un referendum sull'indipendenza, i croati chiedono una entità separata, i bosniaco musulmani vogliono una nuova Costituzione, mentre la crisi sociale ed economica si sta aggravando."

Il 2009, per la Bosnia Erzegovina, è stato in effetti un anno fallimentare. I due principali obiettivi dichiarati dai diversi leader politici, percorso di integrazione europea e ingresso nella Nato, hanno visto pesanti passi indietro. La Bosnia è stata esclusa dal regime di liberalizzazione dei visti proposto da Bruxelles alla maggioranza dei Paesi della regione, mentre la Nato ha rifiutato la richiesta di Sarajevo di entrare nel Membership Action Plan dell'Alleanza.

Sul piano politico, il fallimento più significativo è stato quello rappresentato dai colloqui di Butmir, presso Sarajevo, tenutisi a più riprese nel mese di ottobre (8-9 e poi ancora 20-21). I politici bosniaci hanno respinto il pacchetto di riforme proposto dai negoziatori europei ed americani per uscire dall'attuale situazione di stallo. Il Consiglio di Attuazione della Pace (PIC), organismo multinazionale garante del rispetto degli accordi di Dayton, nella sua riunione del 18 e 19 novembre ha espresso "seria preoccupazione" per la mancanza di progressi e rimandato per l'ennesima volta la chiusura dell'Ufficio dell'Alto Rappresentante. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato il prolungamento del mandato EUFOR (la forza militare europea presente nel Paese) di un altro anno. L'Alto Rappresentante Valentin Inzko, infine, a fronte del disaccordo dei politici locali e in particolare della ferma opposizione dei serbo bosniaci, in dicembre ha imposto "de jure" il prolungamento del mandato dei giudici internazionali che lavorano alla Corte di Stato sui crimini di guerra.

(Foto Vermin Inc, Flickr)

La vera bordata al fragile equilibrio bosniaco è però arrivata da Strasburgo, il 22 dicembre. La Corte Europea per i Diritti Umani ha stabilito, nel caso «Sejdić e Finci contro Bosnia Erzegovina», che la costituzione bosniaca viola i diritti delle minoranze e va dunque cambiata. Jakob Finci e Dervo Sejdić, rispettivamente rappresentanti della comunità ebraica e rom bosniaca, si erano rivolti alla Corte mettendo in discussione il quadro costituzionale stabilito a Dayton, secondo cui solo i rappresentanti dei tre popoli costitutivi (bosgnacchi, serbi e croati) possono candidarsi alla presidenza del Paese o alla Camera dei Popoli del Parlamento (Dom Naroda). Strasburgo ha (ovviamente) condannato la Bosnia Erzegovina. Il presidente della sezione bosniaca del Comitato Helsinki per i diritti dell'uomo, Srđan Dizdarević, ha dichiarato trattarsi di una decisione storica: «Aspettavamo questa decisione da 15 anni. ... Spero che i politici bosniaci comprenderanno la necessità di cambiare la Costituzione appena possibile, di applicare le disposizioni della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e di permettere a ciascuno di noi, bosniaci, erzegovesi, di godere degli stessi diritti accordati ai serbi, ai croati e ai bosgnacchi." (cit. in Gordana Hadžihasanović, Slobodna Europa, 22 dicembre 2009).

Anche l'Europa scopre, dunque, che la Bosnia Erzegovina creata a Dayton non è un Paese basato sull'uguaglianza politica e giuridica dei suoi cittadini. Ma i vari tentativi di riformare la costituzione bosniaca, l'Annesso numero 4 degli Accordi di pace, sono finora naufragati nel nulla ed è fortemente improbabile che qualcosa cambi quest'anno. A ottobre infatti si vota, sia per le politiche che per le presidenziali. Dalla fine della guerra in poi, ogni campagna elettorale è stata contrassegnata dal dispiegarsi della retorica nazionalista e dal clima di paura conseguente. A fronte della continua debolezza delle opposizioni, la paura permette di mantenere l'equilibrio attuale e il gioco rimane a somma zero.

Qual è questa somma? La RS non farà la secessione, almeno non per il momento. Non è nell'interesse dei serbo bosniaci diventare uno Stato paria della comunità internazionale. Continuando a minacciarla, però, Milorad Dodik riesce a impedire qualsiasi tentativo di riformare Dayton creando uno Stato funzionale che possa entrare in Europa. L'obiettivo non è l'indipendenza, ma mantenere in vita l'etnopoli (2) partorita a Dayton dopo una incubazione lunga quattro anni di guerra. Che cos'è una etnopoli? E' quella che ha svelato la Corte per i Diritti dell'Uomo pochi giorni fa, discutendo di un ricorso presentato - ironia della storia europea - da un rom e da un ebreo. E' un Paese in cui i diritti dei cittadini discendono direttamente dalla loro appartenenza etnica. Un caso unico, modellato attraverso la guerra, la forma-Stato più arcaica esistente oggi in Europa. O forse, se consideriamo l'attuale dibattito sui diritti dei migranti, la più moderna.

(1) v. War After Communism: Effects on Political and Economic Reform in the Former Soviet Union and Yugoslavia, di Shale Horowitz, Journal of Peace Research, vol.40 n.1 (2003)

(2) v. Bosnia's error of othering, di Michael Clemence, Open Democracy, 19.01.2010


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