La sede di un tribunale in Turchia (Wikimedia)

OBCT ha incontrato Meriç Akay, figlia del giudice ONU Sefa Akay in carcere da 8 mesi, e l'avvocata Ceren Uyusal, dell'Associazione degli avvocati progressisti, per parlare della situazione della giustizia in Turchia dopo il tentato golpe

29/05/2017 -  Sofia Verza

Il fallito golpe del 15 luglio 2016 in Turchia ha scatenato una serie di purghe nel mondo della giustizia, dell'accademia, del giornalismo e nel settore pubblico in generale. La reazione del governo turco, ad ora, ha condotto a 150 mila licenziamenti, 100 mila persone indagate e 40 mila arresti. Per quanto riguarda l'organo giudiziario, 4400 giudici e pubblici ministeri sono stati licenziati, metà dei quali nei giorni immediatamente successivi al tentato golpe, utilizzando presumibilmente liste di persone non gradite già stilate prima del 15 luglio.

Meriç Akay è la figlia del giudice Aydin Sefa Akay, detenuto dal settembre 2016. OBCT l'ha incontrata a Venezia, in occasione del convegno “Turchia. Giustizia e diritti umani nello stato di emergenza”, del 22 maggio scorso, tenutosi presso l'Università Ca' Foscari. Il padre ha 76 anni ed è giudice delle Nazioni Unite presso il Meccanismo internazionale residuale per i Tribunali penali: si occupa dei processi relativi ai crimini di guerra commessi in Ruanda ed ex Jugoslavia. Nel settembre del 2016, la polizia è entrata a casa Akay ad Istanbul, cercando fra gli oltre 2000 libri del giudice e trovando due scritti di Fethullah Gülen, l'imam autoesiliatosi negli Stati Uniti e accusato di essere la mente del fallito golpe, assieme all'organizzazione terroristica di cui sarebbe a capo (FETÖ). Il giudice è stato arrestato subito dopo. Tra i motivi che giustificherebbero la sua detenzione vi sarebbe anche che il giudice avrebbe scaricato sul proprio cellulare l'applicazione di messaggistica ByLock, che secondo il governo turco è un canale di comunicazione utilizzato dai gulenisti.

“Inizialmente abbiamo deciso di non sollevare un caso attorno al suo arresto, sperando che mio padre sarebbe stato rilasciato dopo poco. Quando è stato chiaro che le cose non andavano in questa direzione, io e alcuni funzionari delle Nazioni Unite ci siamo mobilitati per far conoscere alla comunità internazionale quel che sta accadendo: la Turchia ha arrestato senza giustificazioni un funzionario dell'ONU che gode di immunità diplomatica”.

A novembre 2016, Theodor Meron - presidente del Meccanismo internazionale residuale per i Tribunali penali - ha chiesto che Akay venisse liberato: alcune udienze della Corte, in sua assenza, sono bloccate. Un appello è stato lanciato anche da David Kaye, Relatore ONU per la protezione della libertà di espressione e di opinione. “In risposta, Erdoğan ha chiesto che gli Stati Uniti concedessero l'estradizione di Gülen: pura retorica, visto che Kaye non rappresenta gli Stati Uniti, ma le Nazioni Unite”, ha commentato Meric Akay.

Rispondendo alle domande di OBCT, Meriç Akay ha spiegato che suo padre non è mai stato giudice in Turchia, dunque non ha mai seguito in tribunale casi scomodi per le autorità turche. “E' però vero che mio padre ha conseguito un dottorato nel campo dei diritti umani, e ha sempre seguito la questione delle minoranze armena, ebraica e curda in Turchia. Si tratta di una persona in vista e di un funzionario dell'ONU: il suo arresto è una dimostrazione di potere. Erdoğan vuole dimostrare che nemmeno l'ONU può interferire con le decisioni turche”. Merik Akay ha potuto visitare suo padre in carcere per la prima volta lo scorso 19 maggio: “Si sente in ostaggio. Mi ha detto che ai carcerati viene fatto un lavaggio del cervello: non possono leggere nulla, gli vengono rifiutati i libri. Possono leggere ogni tanto i giornali filo-governativi”.

Sempre a Venezia, OBCT ha incontrato l'avvocata turca Ceren Uyusal, membra dell'organo esecutivo del ÇHD (Associazione degli avvocati progressisti).

Il ÇHD è stato chiuso per tre mesi nel novembre 2016 con un decreto di emergenza in quanto ritenuto una “minaccia per la sicurezza nazionale”, assieme ad altre 374 associazioni (e altre 1.125, chiuse pochi giorni dopo il tentato golpe). Insieme al ÇHD è stata chiusa anche l'associazione OHD (Avvocati per la Libertà), destando forti preoccupazioni per il diritto di difesa di migliaia di persone sotto indagine in seguito alla dichiarazione dello stato di emergenza in Turchia.

“Difendere chi è indagato con accuse di terrorismo è sempre stato difficile in Turchia” spiega Uyusal “spesso non è possibile avere accesso ai documenti relativi al processo, o conoscere il capo di accusa preciso prima di arrivare in udienza. Di conseguenza, gli avvocati devono improvvisare una difesa. Oggi, in aggiunta, molti avvocati si rifiutano di difendere chi è accusato di legami con Fethullah Gülen: il fatto che un avvocato sia considerato estraneo ideologicamente o politicamente rispetto al proprio cliente non è cosa scontata. Molti avvocati, accettando di difendere chi è accusato di terrorismo, temono di venire indagati a loro volta: non si tratta di un fatto nuovo, come ci insegna nel 2011 l'indagine contro i 46 avvocati di Abdullah Öcalan, leader curdo in isolamento da 17 anni”. In questo senso, inoltre, è inevitabile ricordare l'uccisione di Tahir Elçi, presidente dell'associazione degli avvocati di Diyarbakir.

Uyusal ha spiegato ad OBCT che a volte decidere di non difendere chi è accusato di legami con Gülen è anche una presa di posizione: “Nel ÇHD, ad esempio, abbiamo deciso di valutare caso per caso: alcuni degli indagati sono poliziotti che prima ci arrestavano durante le manifestazioni, o giudici che incarceravano i giornalisti scomodi. Per noi, sono parte integrante dei problemi politici in Turchia”.

In Turchia il controllo del governo sulle pratiche di accusa e difesa, e sugli esiti dei processi, è sempre più evidente. Anche la simbologia, in questo senso, aiuta: nel settembre 2016 per la prima volta l'inaugurazione dell'anno giudiziario si è tenuta nel sontuoso palazzo presidenziale del presidente Tayyip Erdoğan.


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