La Sala Tripcovich gremita, durante le premiazioni della 27ma edizione del Trieste Film Festival

Si è chiusa sabato scorso la 27ma edizione del Trieste Film Festival. Tutti i premi assegnati in questa rassegna del nostro critico cinematografico

03/02/2016 -  Nicola Falcinella

Con il premio all'ungherese “The Wednesday Child - Il figlio del mercoledì” di Lili Horvath nel concorso lungometraggi e del russo “Under the Sun” di Vitalij Manskij nei documentari, si è chiuso sabato sera il 27° Trieste Film Festival. Un'edizione ancora baciata dal successo, anche se funestata dalla scomparsa della fondatrice e direttrice storica Annamaria Percavassi pochi giorni prima dell'inizio. Il rodatissimo team della manifestazione, con il direttore Fabrizio Grosoli, ha allestito una settimana (aggiungendo due giorni rispetto agli ultimi anni) sempre più ricca e varia e in linea con le trasformazioni di questi eventi e delle richieste di pubblico e addetti ai lavori: non solo proiezioni, apertura sempre più alla città (che ha risposto con il tutto esaurito a parecchie proiezioni, cominciando dall'inaugurazione con il bel “Sole alto” del croato Dalibor Matanić) con un occhio all'internazionalizzazione. Sono stati così ben 550 gli accreditati complessivi (+10% rispetto al 2015), cui si sommano i circa 350 professionisti di When East Meets West, con più di 160 ospiti da oltre 30 paesi, e 95 film, tra i quali quattro anteprime mondiali e due candidati all’Oscar.

Nel concorso lungometraggi erano in gara otto film, tra i quali ben cinque opere di debutto e il pubblico ha con il suo voto scelto una di queste. La Horvath racconta della ventenne Maja, ragazza madre che sa poco del suo passato e che ha un figlio piccolo, Kristian, sordo e ospite di un istituto. L'unico giorno di visite è il mercoledì e la giovane ha come traguardo riuscire ad avere il bambino in affidamento. Per fare questo, cerca di farsi finanziare il progetto di una lavanderia da un'associazione che si occupa di microcredito, gestita da Janos. L'inizio non è dei più positivi, dal momento che Maja sottrae il portafoglio all'uomo, ma poi il rapporto migliora e la lavanderia si avvia verso la concretezza. Intanto il compagno della ragazza, Kris, assente, prepotente e violento, è occupato nella piccola delinquenza e si ingelosisce. Il film, all'insegna dei buoni sentimenti, prosegue su binari collaudati nell'alternarsi di su e giù, con personaggi un po' schematici, con la musica usata a sottolineare troppo ogni momento. Su tutto la forza di volontà e l'ansia di riscatto della protagonista.

Una bambina è al centro di “Under the Sun”, il documentario vincitore ambientato in Corea del nord. Un film che si apre con la singolare avvertenza allo spettatore di essere stato realizzato in accordo con le autorità di Pyongyang, partendo da uno scritto concordato, viaggiando sempre accompagnati e filmando solo nelle situazioni consentite. Ne esce comunque un ritratto dell'assurdità e della paranoia nella vita nordcoreana. Manskij segue la piccola e intelligentissima Lee Zin-Mi che frequenta le scuole elementari e si prepara a entrare nelle file dei Giovani pionieri. Le lezioni sono scandite da glorificazioni della famiglia Kim fino alla noia, insegnamenti a odiare i giapponesi, gli americani e le loro “marionette” e interminabili discorsi dei generali. Intanto in piazza e per strada la propaganda è incessante: ritratti dei “cari leader” ovunque e ridicoli esercizi di ginnastica per tutti per mantenere in salute la popolazione. I genitori della piccola sono ripresi sul lavoro (anche se didascalie avvertono che probabilmente non si tratta dei loro lavori veri) in fabbriche modello dove si esalta la produttività. Tutto è messo in scena, con funzionari a istruire continuamente scolari e lavoratori, come se si sostituissero a un regista di finzione. Più si mostra il meglio (anche negli ospedali), più emerge la falsità e le contraddizioni di tutto, con la bambina stanca per l'impegno richiestole o annoiata per quanto accade intorno a lei.

Per la prima volta Osservatorio Balcani e Caucaso ha assegnato il suo premio a un documentario, il sorprendente “Chuck Norris vs. Communism” della romena Ilinca Calugareanu, scelto perché: "Il film riesce a colpire lo spettatore con una storia molto originale sulla Romania di Ceaușescu: alternando finzione e documentario questo film diverte il pubblico portando sullo schermo la vita quotidiana ed eroica di gente comune sotto il regime comunista, ancora poco conosciuto nel resto del mondo". Quasi un thriller che racconta come, dal 1985 in poi, l'importazione e la diffusione clandestina di film americani abbia contribuito all'occidentalizzazione della Romania. Teodor Zamfir ebbe l'idea di far entrare illegalmente dall'Ungheria i blockbuster hollywoodiani, farli tradurre e doppiare velocemente da Irina Nistor che lavorava alla tv nazionale e divenne presto una voce familiare per i romeni, duplicarli e farli circolare. Nacquero le “video night” nelle case di possedeva un videoregistratore, che chiamava a racconta parenti e vicini. “Vedevamo anche 4-5 film a notte – ricordano gli spettatori di allora – fino alle 5 del mattino”. La regista ricostruisce abilmente l'avventura con interviste a protagonisti e testimoni, spezzoni di molti film ed efficaci ricostruzioni fiction di alcuni di quei momenti. Entro 24 ore dal loro arrivo, i film venivano approntati per la circuitazione: Nistor tenne un diario di tutti e, fino all'89, ne doppiò circa 3000 interpretando tutti i personaggi. C'è chi ricorda di aver visto “Top Gun” 38 volte e chi di aver scoperto il cinema con “Ultimo tango a Parigi”, chi afferma che guardare film era qualcosa di sovversivo, un modo di ribellarsi al regime. Quest'ultimo sapeva (il figlio di Ceaușescu era un acquirente) ma forse sottovalutò il fenomeno, che, pur con qualche spavento e ispezione (un caso fu dovuto a “Gesù di Nazareth”) sopravvisse, grazie anche a infiltrati, connivenze e tangenti sotto banco. Zamfir divenne molto ricco e influente e continuò l'attività fino al 1992. Un film che racconta in modo nuovo aspetti poco noti, che merita diffusione e in qualche modo fa coppia con l'altro romeno “Cinema, mon amour” di Alexandru Belc”, anch'esso in competizione.

Nel concorso cortometraggi premio invece a “Dissonance” del tedesco Till Nowak, un mix suggestivo di live action e animazione per entrare nella mente di un musicista. Il Premio Corso Salani in ricordo dell'attore e regista per una pellicola ancora senza distribuzione è andato all'interessante opera prima “Banat – Il viaggio” di Adriano Valerio, storia di un'emigrazione al contrario dall'Italia alla Romania. Il Premio CEI – Central European Initiative per “un film di impegno civile capace di interpretare la realtà contemporanea europea e il dialogo tra le culture” è andato a “The Prosecutor The Defender The Father and His Son” della bulgara Iglika Triffonova.

La giuria degli studenti del Liceo Petrarca di Trieste ha assegnato al cortometraggio “Love on the Top of the World” di Jan Cvitkovič il Premio #TSFFbacktoschool, un riconoscimento meritato per un corto delicato e raffinato sull'amore e la terza età. Infine, ospite premiata con l'Eastern Star Award 2016, l'attrice Irène Jacob che ha accompagnato l’omaggio a Krzysztof Kieślowski nel ventesimo della scomparsa e la proiezione de “La doppia vita di Veronica” e “Film rosso”.

 


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