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Breve, intensa e piena di retorica bellicosa. Così è stata la piccola guerra commerciale scoppiata la settimana scorsa tra Croazia e Serbia, sull’onda lunga della crisi dei rifugiati. Un’analisi

28/09/2015 -  Dragan Janjić Belgrado

È stata senza senso e immotivata, ha recato danno a tutti, ma per fortuna è durata molto poco. Così si potrebbe descrivere la piccola “guerra commerciale” tra Serbia e Croazia, scatenatasi a seguito della recente ondata di rifugiati provenienti da paesi in conflitto e giunti nella regione. Il blocco delle frontiere tra i due paesi è durato qualche giorno ma per riparare i danni nei rapporti bilaterali sarà ora necessario molto tempo, pazienza e comprensione.

Da un punto di vista formale, in questa prova di forza, è andata meglio alla Serbia, dal momento che la Croazia è stata costretta a togliere il divieto di ingresso dei camion provenienti dal territorio della Serbia, introdotto la scorsa settimana. In sostanza però entrambi i paesi risultano perdenti perché hanno arrecato un grosso e inutile danno alle proprie aziende, quantificabile in decine di milioni di euro.

Lo scorso anno il valore complessivo degli scambi tra Serbia e Croazia era di 756,9 milioni di euro, una cifra considerevole per le rispettive fragili economie.

La “guerra commerciale” è iniziata il 21 settembre scorso con la decisione del governo croato di vietare l’ingresso dei camion provenienti dalla Serbia, bloccando così il traffico di merci su strada. La Croazia ha adottato la misura con l’intenzione di costringere la Serbia a limitare il flusso dei rifugiati verso la propria frontiera e per indirizzarli piuttosto al nord, verso la frontiera con l’Ungheria. Il governo croato ha spiegato che i precedenti tentativi di convincere Belgrado a indirizzare diversamente i rifugiati non avevano dato alcun risultato.

La Serbia ha replicato affermando di non indirizzare da nessuna parte i rifugiati, e certo non verso la Croazia, ma che sono loro stessi a cercare nuovi passaggi perché sanno bene che l’Ungheria ha chiuso le frontiere e ha aumentato le forze di polizia e esercito a controllo del confine. Belgrado ha quindi posto alla Croazia un ultimatum per ritirare la decisione sul divieto di ingresso dei camion, ma dopo la risposta negativa di Zagabria in Serbia è stato posto il divieto di ingresso ai camion con targa croata e contenenti merce prodotta in Croazia.

La Croazia ha quindi proibito l’ingresso sul proprio territorio degli autoveicoli con targa serba. All’inizio era persino in vigore il divieto di ingresso dei cittadini con passaporti serbi, ma questa misura è stata subito ritirata. Entrambe le parti in causa hanno rimosso poi il blocco a partire dal 25 settembre, su esplicita richiesta di Bruxelles.

Bruxelles

È un fatto che i due paesi, che durante gli anni Novanta hanno combattuto una lunga e sanguinosa guerra, alla prima richiesta di Bruxelles si sono mossi immediatamente per allentare la situazione e hanno aperto le frontiere. Questo dimostra che l’Unione europea, nonostante la crisi in corso, continua ad avere una certa influenza sugli eventi potenzialmente turbolenti nella regione, dove cerca di difendere i principi su cui è fondata: l’UE continua ad essere un polo attrattivo per i paesi dei Balcani occidentali.

La Croazia nell'introdurre il divieto per i camion provenienti dalla Serbia ha contato sul fatto di essere già un membro dell’UE e che Bruxelles avrebbe avuto comprensione per le misure introdotte per difendersi dall’eccessivo afflusso di rifugiati. Così però non è accaduto. Il giorno stesso in cui i due stati hanno ritirato la decisione sul blocco delle frontiere, a Belgrado è giunto in visita il Commissario europeo per l’allargamento e le politiche di vicinato, Johannes Hahn, il quale ha palesato il suo appoggio alla Serbia, mentre Bruxelles ha chiesto a Zagabria un’immediata spiegazione su quanto avvenuto.

Così il premier croato Zoran Milanović, che assumendo una posizione intransigente nei confronti della Serbia mirava anche ad ottenere punti politici nella campagna elettorale per le politiche che sta prendendo il via in Croazia, si è trovato in una posizione piuttosto scomoda. Ha giocato duro, ma ha poi dovuto giustificarsi con Bruxelles. Perdendo punti in casa e peggiorando la posizione del paese all’interno della famiglia europea.

Milanović, cercando di gestire la crisi dei rifugiati, ha tirato in ballo anche l'Ungheria: i rifugiati che arrivavano in Croazia li ha indirizzati ai confini con l’Ungheria, mentre ha accusato il premier serbo Aleksandar Vučić di essersi accordato con il governo ungherese per mandare in Croazia i rifugiati arrivati sul territorio serbo. Il governo ungherese, come ovvio, ha negato qualsiasi accordo con il governo serbo.

I media croati nel riportare la crisi in corso hanno mantenuto perlopiù un atteggiamento professionale, evitando di incitare apertamente l’opinione pubblica contro la Serbia. Milanović però nei discorsi in pubblico non è stato allo stesso livello, concedendosi l’uso di un linguaggio da strada. Ad un certo punto ha persino usato il termine “barbari” per i serbi. Fatto che ha suscitato la rabbia di Belgrado e che non è stato gradito nemmeno dai funzionari di Bruxelles.

Retorica

Gli errori commessi dal premier croato hanno contribuito automaticamente al successo del premier serbo Vučić che il 25 settembre, poco prima della decisione formale del suo governo di togliere il divieto all'ingresso per i camion e le merci croate, ha detto di essere soddisfatto del fatto che la Serbia, come paese che ancora non è membro dell’UE, sia riuscita ad ottenere l’appoggio di Bruxelles nella diatriba con un membro UE. L’esito della contesa è stato una vittoria per il suo governo.

I tabloid serbi subito dopo la decisione della Croazia di vietare l’ingresso dei camion provenienti dalla Serbia hanno adottato una retorica aggressiva, chiamando Milanović con vari termini dispregiativi, persino idiota, e paragonando la Croazia allo stato ustascia della Seconda guerra mondiale. Tale paragone viene ripreso anche in una nota diplomatica inviata all’ambasciata croata a Belgrado il 24 settembre. L’ambasciatore croato si è rifiutato di accogliere la nota, considerandola offensiva.

Vučić dopo la rimozione dei blocchi alle frontiere ha ammorbidito la sua retorica, invitando i membri del suo governo a fare altrettanto. In una dichiarazione rilasciata alla tv pubblica croata alla vigilia dello sblocco delle frontiere, Vučić ha invitato tutti i tabloid a evitare l’hate speech. Nel frattempo, il premier croato Milanović rilasciava un’intervista alla tv pubblica serba in cui ribadiva le richieste avanzate in precedenza di indirizzare i rifugiati verso l’Ungheria, affermando inoltre che la Croazia in quanto membro dell’UE può bloccare la strada dell’integrazione europea alla Serbia.

A Vučić l’esito della piccola guerra commerciale con la Croazia è andato di lusso: proprio quando la Serbia è costretta ad una politica pragmatica sul Kosovo, si è trovato a poter offrire all’elettorato nazionalista serbo la storia della grande vittoria contro una rivale storica, la Croazia.  Il governo serbo non mollerà su questo tema ed è per questo lecito aspettarsi che l’abbassamento dei toni di questi giorni impieghi più tempo a verificarsi dell’apertura delle frontiere.

Belgrado però deve fare i conti col fatto che il premier croato Milanović ha ragione quando dice che la Croazia è membro dell’UE e la Serbia non ancora. La Serbia ha ancora di fronte a sé un lungo processo negoziale con Bruxelles, e l’aumento della conflittualità con uno stato membro non può portare ad alcun vantaggio. Se il governo di Vučić non terrà conto di questa questione, ossia se continuerà a fare i conti con i punti politici che ottiene in casa, commetterà un grosso errore.


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