Interno della mostra - foto Alessandro Cattunar

Interno della mostra - foto Alessandro Cattunar

A Nova Gorica, nel sottopassaggio che attraversa i binari della linea ferroviaria Transalpina, è stata recentemente inaugurata una mostra "Never Mind the Borders" che racconta le pratiche transfrontaliere sul confine alto-adriatico negli anni della Guerra fredda. Una recensione

30/06/2025 -  Alessandro Cattunar

I confini sono linee che dividono in modo netto. Un di qua e un di là. Un noi e un loro. Marcano le differenze, favoriscono la separazione. Si nutrono dei contrasti del passato e promuovono la diffidenza nel futuro.

Quando vengono definiti, nel 1947, i nuovi confini tra Italia e Jugoslavia e tra Austria e Jugoslavia sono proprio questo: segni su una carta tracciati con l’intento di chiudere la tragica fase della Seconda guerra mondiale andando a definire e separare in modo netto non solo diverse entità statali, ma diverse concezioni della politica, dell’economia, della società.

Il tratto meridionale della linea che Winston Churchill già nel 1946 aveva definito – con grande forza evocativa – “Cortina di ferro” sembra in effetti incarnare ed esaltare le caratteristiche tipiche del confine come barriera tra due mondi inconciliabili, che devono rimanere separati, che vogliono rimanere separati. In conflitto tra di loro. Per quanto freddo possa essere un conflitto.

Ed effettivamente fino alla metà degli anni Cinquanta, superare, attraversare, i confini che dividono l’Italia e l’Austria dalla Jugoslavia non è facile, neanche per le comunità e le famiglie che quella linea l’hanno vista sorgere in mezzo alle proprie case e strade, costretti a decidere da quale parte restare a vivere, a cosa rinunciare. 

D’altra parte, a chiunque abbia assistito alla tracciatura di quello stesso confine è ben chiaro come la linea del 1947 sia andata a dividere popolazioni e territori che, effettivamente, così diversi non erano, e che per lungo tempo si erano considerati “di frontiera”, più che “di confine”, evidenziando ed esaltando l’ibridazione, il meticciato, più che la “purezza” di tratti etnici, nazionali, politici.

Nell’Alto Adriatico, forse più che altrove, i confini postbellici appaiono come una forzatura, vengono percepiti come innaturali e così, mentre quella stessa “Cortina di ferro” si rafforzerà nel cuore dell’Europa nei decenni successivi, qui, ai margini, inizia presto a cambiare natura, a mutare, a riconfigurarsi, complice la rottura dei rapporti tra Tito e Stalin.

Progressivamente, a quei confini, si inizia a non badare più, si inizia a fregarsene. “Never mind the borders”, come recita in modo molto efficace il titolo della mostra promossa dal Centro di Ricerche Scientifiche di Capodistria, curata da Nina Hofmann, Borut Klabjan, Urška Strle, Benedetto Zaccaria e frutto di un lungo lavoro di ricerca portato avanti da un team internazionale di ricercatori e ricercatrici guidato da Borut Klabjan che hanno evidenziato come, la prospettiva, debba essere ribaltata.

Quegli stessi confini che per alcuni anni effettivamente si sono configurati come una barriera, un limite teso a impedire i contatti e le contaminazioni, a partire dalla metà degli anni Cinquanta – e poi, in maniera sempre più decisa nei decenni successivi – sono diventati sempre più porosi. E, di conseguenza, le metafore possono e devono essere aggiornate.

Non più il confine come “muro” – espressione decisamente abusata, fino a tempi molto recenti, in cui si è visto addirittura dare alle stampe un francobollo con il riferimento a un fantomatico “Muro di Gorizia” mai esistito nella realtà – ma il confine come “cerniera”, come “ponte”, come occasione di contatto, di ibridazione, di sperimentazione.

Il confine proprio in quanto limite – lungo il quale certe attività sono impedite o, quanto meno, rese più faticose – favorisce la sperimentazione di nuove pratiche, l’emergere di nuove prospettive e possibilità.

La mostra si sofferma proprio su queste pratiche, e sulle persone che le hanno rese possibili, ricorrendo alle informazioni, ai dati e alle testimonianze raccolte durante un’attività di ricerca in profondità, capace di scandagliare al contempo gli archivi e i percorsi di vita individuali.

Pratiche di collaborazione e cooperazione transfrontaliera, pratiche sviluppate a livello ufficiale, dagli Stati e dagli enti locali, ma anche pratiche nate dal basso, messe in atto da specifiche categorie, o da singole persone.

Pratiche sintetizzate in alcune immagini fotografiche di grande forza evocativa collocate in un luogo altamente simbolico, per quanto inusuale: il sottopassaggio che attraversa i binari della linea ferroviaria Transalpina a Nova Gorica, infrastruttura appena inaugurata in occasione di Nova Gorica/Gorizia Capitale Europea della Cultura 2025.

Un contesto sicuramente suggestivo, a pochi passi da piazza Transalpina/Trg Evrope, simbolo per eccellenza del confine come divisione (dal 1947) diventata poi rappresentazione plastica di un confine capace di unire due città, facendole diventare un’unica area urbana (dopo il 2004), sotto quella ferrovia nata con l’intento di collegare l’Adriatico con il centro dell’Impero austroungarico.

Poster

La mostra, rivolta ad un pubblico di non specialisti, è molto sintetica (forse anche troppo considerato il grandissimo lavoro di ricerca svolto), essenziale nella struttura, capace di focalizzare l’attenzione su tre dimensioni intrecciate fra di loro: i luoghi, le persone, le pratiche. Tredici brevi sezioni, ognuna dedicata ad un ambito specifico.

Un ruolo da protagonista se lo ritagliano i valichi, i punti di contatto fisico, quegli spazi che, attraversati dal confine, nel corso degli anni saranno sempre più attraversati anche dalle persone, e dalle cose. Attraversamenti leciti – gli investimenti, i commerci, i gruppi sportivi, le personalità politiche –  e illeciti, con grandi e piccole pratiche di contrabbando.

In entrambi i casi emerge la forte correlazione tra i territori affacciati  sul confine, territori in cui le persone approfittano proprio delle “specificità” dell’altro, delle condizioni favorevoli che si creano “dall’altra parte”. E nella quotidianità di queste pratiche emerge con evidenza come il confine sia portatore di opportunità che altrove non si presentano: avere a disposizione, a pochi chilometri di distanza, due assetti politici ed economici profondamente diversi permette alle persone di cercare oltre la linea ciò che non trovano in casa propria.

Dai racconti e dalle ricostruzioni di “Never mind the Borders” emerge la centralità delle azioni dal basso, dello spirito d’iniziativa delle persone e della spinta di gruppi con specifici interessi. Il confine inizia ad essere sempre più ignorato, superato, violato, grazie alla spinta delle passioni e delle necessità.

Marta Verginella, ad esempio, evidenzia come nel corso degli anni si siano sviluppati flussi in entrambe le direzioni per esigenze di carattere medico. Donne e uomini sloveni che avevano optato per l’Italia cercano assistenza nella propria lingua nel sistema sanitario d’oltreconfine. Inoltre, molte donne residenti in Italia approfittano della maggiore attenzione del sistema jugoslavo ai diritti riproduttivi delle donne per ottenere contraccettivi e accesso a pratiche di interruzione della gravidanza.

Di grande interesse è anche ciò che avviene nell’ambito dello sport – con il calcio, la pallacanestro, l’automobilismo, l’atletica, ma anche le “marce dell’amicizia” –  e l’alpinismo. Dopo anni di conflitti in cui le vette erano state particolarmente presidiate, negli anni Sessanta proprio nelle terre alte si sviluppano nuovi approcci, anche grazie alla volontà di alcuni importanti club alpini di Friuli Venezia Giulia, Slovenia e Carinzia.

Pratiche ben sintetizzate da Marco Abram anche con un’immagine di grande effetto, in cui si vedono decine di escursionisti sul Monte Forno (Peč/Dreiländereck), dove Austria, Italia e Slovenia si toccano, in occasione della Festa dell’amicizia.

In parallelo alle persone si attivano anche le istituzioni, soprattutto a livello locale e regionale, creando enti transnazionali come la “Comunità di lavoro Alpe Adria”, estesa originariamente dal Veneto alla Stiria alla Croazia (per poi allargarsi ulteriormente fino alla Lombardia e all’Ungheria), con l’obiettivo di favorire le pratiche di cooperazione proposte da imprenditori locali, camere di commercio e intellettuali, convertendole in iniziative politiche. 

Nel pieno della Guerra fredda, dunque, sono molti a non considerare i confini come limiti invalicabili, coloro che iniziano a ignorarli, a dirsi “never mind the Borders”, a viverli come un fastidioso ma superabile impedimento oppure a immaginarli come un’occasione, per creare nuove relazioni, per esplorare possibilità diverse, per costruire ponti  fisici – come quello sul fiume Kolpa/Kupa raccontato da Nina Hofmann – e ideali, capaci di dare frutti sul lungo periodo, e che trovano in GO!2025 prima capitale transfrontaliera europea della cultura un perfetto punto d’arrivo.

La mostra, visitabile anche on-line in sei diverse lingue, è promossa all’interno del progetto ERC "Cold War Europe Beyond Borders. A Transnational History of Cross-Border Practices in the Alps-Adriatic area from World War II to the present", finanziato dall'Unione Europea e ospitato dal Centro di Ricerche Scientifiche di Capodistria. Gli autori sono: Marco Abram, Nina Hofmann, Borut Klabjan, Urban Orel, Jure Ramšak, Mateja Režek, Sabine Rutar, Karlo Ruzicic-Kessler, Urška Strle, Federico Tenca Montini, Marta Verginella, Benedetto Zaccaria.

 

Alessandro Cattunar, dottore di ricerca in Storia contemporanea, insegnante e curatore di diversi progetti di public history nel goriziano, ha recentemente pubblicato il libro 

Storia di una linea bianca. Gorizia, il confine, il Novecento, Bottega Errante, 2024


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