Al centro, Nikol Pashinyan - Wikimedia

Nikol Pashinyan, ex giornalista e leader di un piccolo partito di opposizione, in poche settimane è diventato l’icona di un’Armenia che vuole chiudere il conto con il torpore post-sovietico e voltare pagina. E che l’8 maggio potrebbe diventare il nuovo primo ministro del paese

04/05/2018 -  Monica Ellena

La politica armena è passata da un’obsoleta Lada sovietica che perdeva colpi a una veloce Lamborghini nell’arco di un mese – e al volante, barba incolta e T-shirt mimetica - è saldamente incollato Nikol Pashinyan.

In poche settimane l’ex giornalista 42enne si è trasformato da marginale leader della coalizione all’opposizione, Yelk (Via d’Uscita), a un condottiero, capace di infiammare gli animi ma anche di contenerli per portare avanti quella che lui stesso ha detto doveva essere una rivoluzione sì, ma pacifica, “di velluto”.

Im K’ayly (Il mio passo), la marcia di protesta organizzata con i suoi compagni di partito, il Contratto civile, doveva segnare un atto di protesta contro il tentativo del Partito repubblicano (HHK dall’acronimo armeno) al potere di far nominare l’ex presidente Serzh Sargsyan quale nuovo primo ministro, alimentando così lo spettro di un “leader a vita”. La marcia ha mosso i primi passi il primo aprile dalla seconda città armena, Gyumri, tra l’indifferenza dei media. I più non sapevano chi fosse quel manipolo di manifestanti e quando sono arrivati nella capitale Yerevan il 13 aprile, quattro giorni prima del voto parlamentare per la nomina del premier, i giochi nelle stanze dei bottoni erano già fatti.

E' stato allora che Pashinyan ha cambiato marcia.

Animo pasionario

Dieci anni fa nessuno sapeva dove si trovasse Pashinyan: era infatti latitante. Allora direttore del più letto, e critico, quotidiano armeno Haykakan Zhamanak (Tempi armeni), aveva preso parte alle proteste seguite alle elezioni presidenziali del 19 febbraio 2008 che avevano incoronato Sargsyan. Sul risultato pesava l’accusa di frodi e compravendita di voti e migliaia di persone scesero in piazza a sostegno dell’altro candidato, Levon Ter-Petrosian, già primo presidente dell’Armenia indipendente, dal 1991 al 1998. Tra la folla c’era Pashinyan.

Le proteste finirono nel sangue. Il 1° marzo la polizia passò alla carica: dieci persone morirono e decine furono arrestate. Il governo dichiarò lo stato di emergenza e Pashinyan fu condannato a sette anni di reclusione con l’accusa di fomentare disordini. Si diede alla macchia, scomparendo per oltre un anno. Quando riemerse, nel 2009, si costituì e finì dietro le sbarre fino al 2011 quando fu rilasciato grazie ad un’amnistia accordata ai prigionieri politici. Non ci fu nessuna indagine e, ad oggi, gli eventi del 2008 rimangono una ferita aperta. Nei giorni precedenti le sue dimissioni lo scorso 23 aprile Sargsyan ha dichiarato, incautamente, che Nikol “non aveva imparato la lezione del 1° marzo”. Molti vedono in quel commento la spinta finale per portare in piazza anche chi fino ad allora se ne era tenuto lontano.

Al momento della fuga il futuro pasionario aveva 32 anni e un curriculum già ricco di scontri con le autorità.

Giornalismo e politica

Carismatico, energetico, con un forte senso di giustizia e un fiuto naturale per creare problemi - così lo definisce chi lo conosce da anni e chi l’ha seguito nell’avventura politica, sbocco quasi naturale della sua lunga attività di giornalista.

Nato a Ijevan nel 1975 si trasferì a Yerevan per studiare giornalismo alla Yerevan State University, ma fu espulso – ufficialmente per aver saltato dei corsi, ufficiosamente per aver accusato alcuni accademici di corruzione in uno dei giornali universitari. Fatto sta che fresco di una laurea mancata Pashinyan passa a Haykakan Zhamanak e nel 1999 passa alla sua direzione. Sotto di lui il quotidiano diventa la principale voce critica di un sistema politico corrotto saldamente in mano a un gruppo di oligarchi, colpevoli di strangolare l’economia di un paese già provato dal conflitto con il vicino Azerbaijan e da due frontiere sigillate che ne rallentano lo sviluppo. Negli anni non mancano le denunce per diffamazione da parte di politici accusati di corruzione. Quando non è al giornale è in strada, nel cuore di manifestazioni, siano esse per denunciare frodi elettorali o per protestare contro l’aumento dei biglietti per il trasporto pubblico.

A parte i mesi della latitanza, Pashinyan non abbandona mai il suo giornale e, uscito di prigione, torna a guidarlo. Ma ormai aveva passato il Rubicone e il salto alla politica attiva è inevitabile. Nel dicembre 2013 fonda il Contratto Civile con altri sei attivisti - non un partito politico, bensì un movimento al quale aderirono migliaia di giovani.

Pashinyan non convince tutti - la sua iniziale affiliazione con il controverso Ter-Petrosyan è stato per molti un elemento di sospetto.

“Ero prevenuto verso di lui proprio per il suo legame con Ter-Petrosyan, ma si è guadagnato il mio rispetto sul campo, poco per volta”, spiega a OBCT Babken DerGrigorian, analista politico che nel 2016 ha corso per Yelk nelle elezioni per il rinnovo del consiglio municipale di Yerevan. “È un comunicatore incredibile, ma sa ascoltare, e ha un’abilità unica di riflettere su se stesso”.

È anche un pragmatico ed è la concretezza che spinge lui e gli altri fondatori del Contratto civile a trasformarlo da movimento a partito politico nel maggio del 2015. Se l’obiettivo era sradicare un sistema politico contaminato da corruzione e clientelismo era necessario combatterlo sullo stesso campo - bisognava entrare in Parlamento.

Pashinyan rimane nelle retrovie durante Electric Yerevan i moti di piazza dell’estate del 2015 contro l’aumento delle bollette della luce, e nel confronto armato tra la polizia e il gruppo radicale Sasna Tsrer dell’estate 2016 che si chiuse con la morte di due poliziotti. Si distanzia anche dalle critiche al referendum costituzionale del dicembre 2015 che sigilla il passaggio a una repubblica parlamentare, di fatto anticipando il tentativo passaggio di poltrone di Sargsyan.

Dalla giacca alla T-shirt

Poi nel 2017, il salto al voto. Il Contratto civile si unisce ad altri due gruppi minori – Lusavor Hayastan (Armenia luminosa) e Hanrapetutyun – nella coalizione Yelk nelle elezioni parlamentari del 2 aprile. I due seggi che la coalizione ottiene, su 131 dell’Assemblea nazionale, paracadutano Pashynian nel cuore politico del paese.

Im K’ayly sancisce un cambio di strategia dell’opposizione – Pashinyan si toglie la giacca parlamentare e s’infila la T-shirt mimetica che lo trasforma in un’icona. Quando Pashinyan indossa il cappellino nero con la scritta Dukhov (coraggio), il designer Ara Aslanyan è inondato di ordini, anche dal grande bacino della diaspora all’estero.

Per Richard Giragosian, analista e direttore del Centro di studi regionali, carisma e anni di manifestazioni hanno raffinato la sua conoscenza della piazza e delle sue dinamiche.

Per Pashinyan le sfide e i problemi del paese impongono una politica che va oltre l’obsoleta divisione tra destra e sinistra – un’opposizione che “non funziona più” – e si è tenuto su posizioni moderate per ottenere il più largo consenso possibile.

“Non è dogmatico, ascolta e si appoggia a chi è intorno a lui,” continua DerGrigorian, a sua volta tra gli organizzatori di Electric Yerevan, nonché la mente dietro all’omonimo hashtag virale nell’estate di tre anni fa.

Il 22 aprile il suo arresto, insieme con due colleghi dell’opposizione e decine di dimostranti, innesca una risposta inimmaginabile: la centrale Piazza della Repubblica è inondata da migliaia di persone che urlano il suo nome.

Ventiquattro ore dopo, il “nemico” Sargsyan, getta la spugna e abbandona dopo sei giorni la poltrona di premier – e l’annuncio delle dimissioni sigilla il ruolo di Pashinyan a condottiero della nuova Armenia.

“Nikol aveva ragione. Io Avevo torto”.

Sargsyan però era l’agnello sacrificale del partito repubblicano, non disposto ad abbandonare la presa al potere. E al voto del primo maggio scorso, dopo una maratona di discorsi durata nove ore, il PArtito repubblicano ha votato contro Pashinyan che ha mancato l’obiettivo della nomina a premier. Il popolo della rete, che ha sostenuto la protesta a colpi di post e tweet, si è allora adattato: l’hashtag #RejectSerzh è diventato #RejectHHK e gli armeni hanno fatto scudo intorno a Pashinyan che, rimessa la T-shirt mimetica, ha invocato alla calma e ha chiesto al paese una giornata di disobbedienza civile.

Il 2 maggio l’Armenia ha chiuso, per rivoluzione. Si sono sbarrate le strade, chiusi negozi, chiuse le frontiere, chiusa la metropolitana e i dipendenti pubblici e privati hanno abbandonato gli uffici. E a fine giornata i repubblicani hanno lasciato intendere che al secondo voto del prossimo 8 maggio non ostacoleranno il “candidato del popolo”.


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