Vladimir Jokić

Vladimir Jokić

A colloquio con Vladimir Jokić, ventinovenne sindaco della storica città di Kotor ed esponente di Montenegro Democratico, neonato partito d’opposizione

14/06/2017 -  Nicola Pedrazzi

Vladimir Jokić ha 29 anni e dallo scorso autunno è sindaco della città di Kotor, uno storico porto adriatico cresciuto all’ombra di Venezia: un luogo magico, che il patrimonio artistico e la splendida collocazione geografica hanno reso sito dell’Unesco. Lo abbiamo incontrato a Pescara, a margine del Forum delle Camere di Commercio dell’Adriatico e dello Ionio, dove è intervenuto in qualità di presidente uscente del Forum delle città dell’Adriatico.

Partiamo dal nazionale, dai contestati risultati delle ultime elezioni. In quella stessa tornata elettorale, vinta dal Partito democratico socialista (DPS) del premier uscente Milo Đukanović, lei, strenuo oppositore del DPS, è divenuto sindaco di una delle città più celebri del paese. Dopo decenni di “partito unico”, in Montenegro l’alternanza democratica comincia a funzionare?

Il 16 ottobre scorso non si sono svolte soltanto le elezioni legislative, si è votato anche per alcuni comuni. A Budva e Kotor, il nostro partito, Montenegro Democratico (Demokratska Crna Gora), è riuscito a esprimere il sindaco. Con il 10% dei voti e 8 deputati, siamo la seconda forza politica del paese: non male, se si considera che siamo nati due anni fa. Questa novità lascia ben sperare, ma rimaniamo lontani da una democrazia compiuta. Per noi e per gli altri partiti d’opposizione che ancora oggi boicottano il Parlamento chiedendo nuove elezioni, le votazioni del 16 ottobre non si sono svolte in maniera regolare.

È un’affermazione forte. Fondata su quali fatti? In che modo il rifiuto del confronto parlamentare può giovare alla democrazia?

Per come la vedo io, non partecipare a quel tipo di parlamento è uno dei migliori gesti democratici che si possano fare nel contesto montenegrino. Ora lei giustamente mi chiederà con quale faccia noi non riconosciamo i risultati elettorali nazionali, là dove lo stesso giorno, quelle stesse urne, ci hanno consegnato il governo di due città importanti. Siamo in Italia, e proverò a spiegarmi con una metafora calcistica: se, facendo fallo, il difensore impedisce un goal, un arbitro corrotto potrà fingere di non aver visto il fallo; ma se, nonostante il fallo subito, l’attaccante riesce a fare goal, la palla è dentro, e l’arbitro non potrà non riconoscerlo.

A Budva e a Kotor la palla è entrata, ma non perché non ci siano stati falli ai nostri danni. Possono considerarsi regolari elezioni durante le quali il governo sospende viber e whatsapp diffondendo la paura di un “colpo di Stato”? Sui voti falsi non ci sono prove, ma sarebbero il problema minore, visto che è attestato che il partito di maggioranza ha minacciato di togliere il lavoro a chi non lo avesse votato; infine, la nostra legge elettorale dice che per avere diritto di voto non basta essere cittadini, bisogna vivere in Montenegro per almeno due anni consecutivi; in barba a questa norma, sono risultate votanti persone che da anni non vivono nel paese. Ma ripeto, quello che più ha pesato è stato il clima: l’atmosfera, quel giorno, era un’atmosfera di paura. A urne aperte si è gridato al “colpo di Stato”, ma dopo lo scrutinio la Commissione elettorale si è affrettata a definire le elezioni “regolari”: il tentato golpe non c’era più. La macchinazione del potere in carica è stata evidente.

Stando alla sua ricostruzione, lei è un leader locale che ha vinto contro un potere nazionale disposto a tutto. Si sente in pericolo?

No, io personalmente non ho paura. Ma prima del voto l’atmosfera è stata intimidatoria anche a livello locale. Ho visto con i miei occhi un poliziotto della città di Herceg Novi girare il paese con la sua macchina; sopra il tetto aveva montato un’insegna che invitava i cittadini a non votarci: “Sono persone cattive, che fanno i loro interessi”. Non era in servizio, ma era un poliziotto, e come tale riconosciuto dai cittadini.

Vede, da 27 anni, praticamente da quando sono nato, il Montenegro è guidato dalle stesse persone. La loro politica non è mossa da alcun ideale, sono solamente abituati al governo, e non vogliono condividerlo. Parlano della nazione, del “nemico esterno”, negli anni Novanta stavano con Milošević. Penso che nonostante i brogli noi vinciamo e siamo in crescita perché apparteniamo ad un’altra generazione: non vogliamo più parlare degli anni Novanta, vogliamo vivere come qualsiasi altra nazione del mondo. Siamo un paese piccolo e bellissimo. Il Montenegro è una terra meravigliosa, per me è il paese più bello del mondo. Siamo 600.000 persone, potremmo vivere come San Marino, ma restiamo ingabbiati in una specie di prigione politica.

Qual è il programma del suo partito? Dove vi collocate e in cosa sareste “diversi”?

Kotor (foto OBCT)

Kotor (foto OBCT)

Nasciamo staccandoci dal Partito socialista popolare (SNP), siamo un partito di centro-sinistra formato per lo più da giovani donne e giovani uomini. La nostra diversità sta nel fatto che sperimentiamo cose mai viste nel paese. In vista del 16 ottobre, abbiamo fatto una campagna elettorale porta a porta: in ogni singola casa del Montenegro, sono circa 200.000. Sia chiaro, abbiamo suonato i campanelli non solo per farci conoscere, ma per conoscere i problemi delle persone cui chiedi fiducia. Stiamo cercando di portare in Montenegro un altro paradigma. Il nostro slogan è “Vinci senza dividere”. Grazie a questo nuovo metodo che siamo in crescita esponenziale; tuttavia, se si considera che a Kotor i votanti erano 18.000 e che in totale la nostra coalizione ha preso 7.000 voti, si capisce che c’è ancora tanto “porta a porta” da fare.

Immagino che attorno all’elezione di un giovane sindaco si concentrino un bel po’ di aspettative…

Sento una grande responsabilità, su due livelli: come amministratore, ho il dovere di migliorare la vita delle persone che mi hanno eletto, è un qualcosa che può essere fatto, ne sono certo. Più in generale, noi democratici sentiamo la responsabilità di dare speranza, il nostro compito è di non permettere che i nostri concittadini si abbandonino alla disillusione.

Quanto guadagna il sindaco di Kotor? Glielo chiedo perché in tutti i paesi balcanici una delle cause della corruzione diffusa è il basso reddito di chi ricopre incarichi pubblici. Riesce a vivere con il suo stipendio?

Il mio stipendio è di dominio pubblico, e ammonta a circa 1.100 euro. Certamente posso vivere di quello. Tant’è che sia io che i miei colleghi di partito destiniamo parte dei nostri introiti a un fondo per la manutenzione delle scuole e dei villaggi del paese. Sono d’accordo sul fatto che per difendersi dalla corruzione lo Stato debba garantire salari all’altezza dell’incarico ricoperto; ma dovrebbe soprattutto svolgere una seria attività di controllo; troppo spesso in Montenegro gli ufficiali e i dipendenti pubblici che denunciano casi di corruzione si sentono minacciati invece che protetti.

Ho letto che ha studiato legge a Belgrado. Cosa pensa delle attuali relazioni serbo-montenegrine?

Dipende dal piano su cui si valutano queste relazioni. Sul piano politico Đukanović e Vučić vanno molto d’accordo, ma certamente non è a questo tipo di relazione che guardo con interesse. Il discorso è più ampio: eravamo parte di uno stesso stato fino a pochissimo tempo fa, non possiamo che avere relazioni molto strette. Personalmente, in Serbia mi sento a casa: ci ho vissuto, parliamo la stessa lingua. In verità io mi sento a casa dovunque, almeno là dove ci sia una persona con cui posso parlare. Prima, a pranzo, ero a tavola con amici serbi, croati e albanesi. Così dovrebbe essere sempre.

Nel 2006, quando ci fu il referendum sull’indipendenza del Montenegro, lei aveva già diciotto anni. Posso chiederle se e cosa ha votato? Pensa che sia stato un errore staccarsi dalla Serbia?

Ricordo molto bene quel giorno, fu il mio primo voto. Se non le dico cosa votai è solamente perché è irrilevante. Nel nostro partito ci sono persone che votarono “sì” e persone che votarono “no”, insieme abbiamo promesso di non parlare più di quella scelta. In Montenegro siamo già abbastanza divisi; comunque la si pensi quel voto è passato, noi oggi vogliamo solamente unire.

Restando sul piano internazionale, cosa pensa dell’ingresso del Montenegro nella NATO?

Parte della società montenegrina vorrebbe un referendum a riguardo; una consultazione che il nostro partito sta chiedendo con forza. Se mi chiede cosa voterei a quest’ipotetico – e giusto – referendum, voterei per rimanerne fuori. Ma questa è la mia opinione personale, mossa dal fatto che io voterei “no” a qualsiasi alleanza militare. Sul caso specifico il nostro partito ha solo detto che sarebbe giusto chiedere ai cittadini.

Cosa pensa dell’Unione europea?

È il nostro primo obiettivo. È l’unica questione su cui in Montenegro siamo tutti d’accordo.

Come vede il futuro della regione? Lo stallo del Kosovo, la crisi della democrazia macedone, e più in generale le difficili relazioni bilaterali di paesi candidati all’Europa la preoccupano?

Nei Balcani la situazione è molto dura. Quando due giganti lottano, a soffrire è il prato sotto le loro zampe. Per questo ci serve l’Europa. Penso che il primo obiettivo di tutte le società balcaniche dovrebbe essere il raggiungimento degli standard europei e l’apertura di un dialogo vero. “Balkans to balkanians” è uno slogan, e come tale può essere usato e compreso male, addirittura in chiave anti-europea, ma è un messaggio che io intendo come “stiamo insieme, siamo vicini, restiamo amici”. La parola “tolleranza” non mi è mai piaciuta. Il vicino non si tollera, con il vicino si vive e si parla. Abbiamo bisogno di un patto sociale tra le società balcaniche. I nazionalismi servono solo a chi governa, le persone comuni ne soffrono e basta. Nei Balcani abbiamo una nuova generazione che ha capito e che non approva il pensiero nazionalista. Anche per questo oggi sono qui, a Pescara, insieme a tutti partner adriatici. Kotor deve essere quello che è sempre stato: un porto aperto e interessato a tutto quello che si affaccia oltre le sue acque.

Nel breve periodo, quale futuro immagina per il Montenegro?

Questo governo non può durare. Il partito di Đukanović non ha una maggioranza autosufficiente in parlamento, senza l’appoggio dei partiti delle minoranze etniche (bosgnacchi, croati, albanesi) il governo cade. Su 81 seggi, al momento frequentano l’aula solo 42 deputati. Metà dell’aula ne boicotta i lavori. Non sappiamo ancora quale coalizione sfiderà il potere, certamente Aleksa Bečić, il Presidente del nostro partito e leader della nuova generazione, è pronto a guidare il cambiamento. È solo una questione di tempo. E il tempo è dalla nostra.


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