All'interno del carcere di Ig (Charles Nonnes/Le Courrier des Balkans)

All'interno del carcere di Ig (Charles Nonnes/Le Courrier des Balkans)

Con i suoi 1400 detenuti, la Slovenia è tra i paesi europei con il più basso tasso di detenuti per abitanti. Ma il sovraffollamento rimane un problema e gli esperti chiedono politiche di reinserimento sociale

28/01/2019 -  Charles Nonne

(Pubblicato originariamente da Courrier des Balkans il 20 gennaio 2019)

Niente fa capire al visitatore che sta per entrare in un penitenziario. Lasciando la via principale di Ig, piccola città a sud di Lubiana, una stretta strada asfaltata serpeggia attraverso file di conifere senza incontrare alcuna barriera, guardia o dispositivo di sicurezza.

L'edificio massiccio assomiglia ad uno tra le centinaia di forti medievali del territorio sloveno: residenza nobiliare fino al 1717, ha attraversato rivolte contadine, gli attacchi degli Ottomani, la villeggiatura dei carabinieri italiani, l'incendio innescato dai partigiani. Solo le sbarre delle finestre tradiscono il fatto che il castello di Ig, vecchio più di sei secoli, è una delle sei prigioni della Slovenia e l'unico centro di detenzione femminile nel paese.

Il penitenziario ha 50 dipendenti e 75 detenute, divise in zone chiuse, semi-aperte o aperte. Le quattordici detenute di quest'ultima categoria possono liberamente fare telefonate, usare i loro computer, Internet e camminare nel parco vicino alla fortezza. Le uscite avvengono senza intoppi. "C'è una buona convivenza con la popolazione locale", sottolinea Tadeja Glavica, direttrice della prigione.

Con un tasso di occupazione di solo il 72,82%, Ig risulta sicuramente un carcere modello. Per Tadeja Glavica la principale difficoltà sta nell'utilizzo dell'edificio, in qualche suo aspetto poco adatto alla funzione che svolge: "C'è solo uno spazio molto piccolo per le madri che ricevono visite dai propri figli, non abbiamo un posto dedicato per le visite e le detenute spesso dormono in ampie sale comuni senza alcuna intimità”.

Studente modello, in apparenza

Ci sono solo sei carceri in Slovenia. Data l'assenza di grandi centri urbani, il tasso di criminalità rimane inferiore rispetto ad altri paesi della regione. Il 60% delle condanne a reclusione sono legate a furti, furti con scasso o traffico di droga. L'ergastolo è in vigore dal 2008, ma la pena massima rimane de facto di 30 anni di reclusione.

"Spiegando a un collega messicano che la Slovenia aveva solo 1.500 detenuti, inizialmente pensò che avevo dimenticato degli zeri", sorride Damjana Žist, penalista e giornalista giudiziaria per il quotidiano di Maribor Večer. Nel 2016, il tasso medio di incarcerazione in Slovenia era del 63,4 per 100.000 abitanti, a fronte dei 117 come media europea.

Il paese ha 1398 prigionieri per 1339 posti disponibili, con un tasso di occupazione quindi del 104%. La realtà è però più contrastata: la prigione di alta sicurezza di Dob, 60 chilometri a est di Lubiana, ospita 497 detenuti per 449 posti, nonostante la costruzione di una nuova ala nel 2012. La piccola prigione di Capodistria ospita 146 detenuti per 110 posti. Inoltre la popolazione carceraria è in aumento, in particolare tra le donne, e il tasso di recidiva raggiungerebbe il 50% tra i detenuti di età superiore ai 18 anni.

Il problema è amplificato dalla precarietà di strutture che inizialmente non erano state concepite come prigioni. Lubiana rimane la pecora nera: "Fino al 2014 c'erano ancora prigionieri stipati in celle dove i bagni e la doccia erano separati dal resto della cella da una tenda", sottolinea Damijana Žist.

Condanne internazionali

La Corte europea dei diritti dell'uomo (CEDU) viene regolarmente adita da detenuti sloveni che denunciano l'angustia e l'insalubrità delle loro celle: tra il 2012 e il 2018, lo stato ha pagato più di 173.277 euro di danni e interessi a detenuti ed ex detenuti. A questi si aggiungono i 119.204 euro erogati a seguito di procedimenti giudiziari intentati nei tribunali sloveni.

L'ombudsman slovena Vlasta Nussdorfer, che ha in ogni caso sottolineato evidenti miglioramenti negli ultimi anni, rileva "condizioni di vita ancora negative nella maggior parte delle strutture. I prigionieri non devono essere privati ​​della loro dignità umana". Ogni anno, il suo ufficio pubblica raccomandazioni come la possibilità di lavorare per i detenuti che ne facessero richiesta, una migliore assistenza per i gruppi più vulnerabili e la ristrutturazione delle celle.

Il fenomeno è aggravato dalla carenza di personale: "Siamo in situazioni in cui un solo poliziotto accompagna un detenuto in tribunale e siamo talvolta obbligati a rinviare le udienze", afferma Damjana Žist. Il personale di altre carceri deve a volte dare man forte a quello di Lubiana, in un contesto di spossatezza denunciato dai sindacati: tra gennaio e luglio 2018, ogni guardia ha lavorato in media 91 ore di straordinario.

Le falle del sistema sono state messe a nudo nel caso dell'evasione nel gennaio 2019 di due detenuti dalla prigione di Capodistria, fuggiti dopo aver segato le sbarre della loro cella e aver utilizzato dei bidoni della spazzatura impilati nel cuore della notte. La loro fuga è stata scoperta solo il giorno successivo, a colazione. L'incidente è costato al direttore della prigione un pensionamento immediato, oltre a un rapporto al vetriolo della commissione di inchiesta.

Pene alternative

Da oggi al 2023, saranno investiti più di 100 milioni di euro per la costruzione di un nuovo penitenziario nei pressi della capitale. Avrà una capacità di 388 posti, più del doppio della prigione di Lubiana, che andrà a sostituire. Ig sarà ristrutturato e ampliato. L'ombudsman Damjana Žist si felicita di queste misure pur rilevando che "il problema del sovraffollamento non può essere risolto con la semplice costruzione di nuove prigioni". Il governo sta addirittura pensando di poter riassegnare i soldati che sono oltre i 45 anni alla sorveglianza penitenziaria.

Per Damjana Žist, il problema è l'indurimento delle pene. "I penitenziari sarebbero meno affollati se i giudici usassero più spesso punizioni alternative", come servizi alla comunità, arresti domiciliari e il carcere nel fine settimana. Tuttavia, questi ultimi sono accessibili solo per reati punibili con la reclusione fino a tre anni e su richiesta dell'imputato. L'alternativa spesso è solo tra carcere e assoluzione.

"La costruzione di carceri era assolutamente necessaria, ma è solo uno spegnere l'incendio quando le luci di emergenza lampeggiano", sottolinea Mojca Plesničar, ricercatrice presso l'Istituto di criminologia della facoltà di diritto di Lubiana. Al di là della questione delle pene alternative, Plesničar evidenzia la mancanza di omogeneità nelle politiche in campo penale. "I segnali inviati dal ministero della Giustizia non sempre sono coerenti. Spesso si dipende dall'iniziativa personale dei giudici”. Inoltre, in assenza di linee guida specifiche, la gestione di ciascun carcere dipende dallo stile del suo direttore.

Il sistema scandinavo

Il quadro rimane comunque positivo se lo si compara al contesto internazionale. Il tasso di affollamento è inferiore rispetto ad altri paesi come la Francia o il Belgio. Le condanne dei giudici di Strasburgo per trattamenti umanitari o degradanti riguardano solo il carcere di Lubiana. I rari casi di strutture obsolescenti dovrebbero essere risolti con i recenti investimenti. Il concetto di "regime aperto" ricorda tra l'altro le prigioni aperte in gran numero in Svezia.

"In verità - dice Mojca Plesničar - non siamo così lontani dal modello scandinavo. Ci sono ovviamente fattori che dipendono dal PIL del paese, ma il divario fondamentale tra gli stati del nord e la Slovenia è più legato alla concezione del regime carcerario. La Slovenia rimane combattuta tra la visione punitiva del sistema anglosassone e il sistema riabilitativo scandinavo, incentrato sui bisogni e sulla reintegrazione dei detenuti”.

E Mojca Plesničar poi tira fuori una sorprendente fonte di ispirazione: la Jugoslavia negli anni '80, che avrebbe promosso il sostegno umano per i detenuti piuttosto che l'asprezza della sorveglianza. "All'epoca, la socioterapia era parte integrante del sistema carcerario. Le autorità erano consapevoli dell'importanza di aprire il carcere. Ig era a quei tempi un modello: quasi tutte le detenute erano collocate nell'area aperta. In contatto quasi permanente con il mondo esterno".


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