arbyreed - flickr

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A pochi giorni dal centesimo anniversario del genocidio armeno, e nonostante gli importanti passi in avanti degli ultimi anni sulla controversa questione, la Turchia vive con evidente difficoltà un anniversario che segna un passato ancora da superare

21/04/2015 -  Fazıla Mat Istanbul

Mancano pochi giorni all’anniversario del centenario del "Metz Yeghern", il "Grande Male", cui furono sottoposti, tra il 1915 e il 1917, migliaia di armeni che vivevano nell’Impero ottomano. Come ogni anno, con l’avvicinarsi del 24 aprile, data che segna l’inizio delle deportazioni sfociate in massacri di massa, la Turchia ha iniziato ad assumere la classica posizione difensiva contro l’espressione “genocidio” che, da cinquant’anni a questa parte, la diaspora armena lotta per far riconoscere quale termine che definisca quei tragici eventi.

Una questione irrisolta

La storiografia turca ufficiale, dagli inizi della Repubblica fino ad oggi, utilizza infatti il termine tehcir (deportazione forzata) per descrivere il fenomeno che ha portato alla quasi totale scomparsa della popolazione armena dall’Anatolia e giustifica quanto avvenuto con un riflesso di auto-difesa suscitato dalle circostanze di pericolo nazionale sviluppate nel contesto della prima guerra mondiale.

Sebbene il governo islamico moderato del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) e i suoi leader, a differenza di altri esecutivi nazionalisti del passato, riconoscano le atrocità commesse – il presidente Tayyip Erdoğan, già premier, l’anno scorso ha anche offerto le sue condoglianze ai discendenti delle vittime armene – la Turchia non accetta in alcun modo di avere ucciso gli armeni in modo premeditato e sistematico.

Secondo il presidente, lo scopo delle campagne della diaspora armena "non è tanto quello di ricordare le sofferenze patite dagli armeni, bensì quello di atteggiarsi da nemici contro il nostro paese e il nostro popolo. (…) Come in tutte le epoche storiche ci possono essere grandi dolori e tragedie avvenute durante la Grande Guerra. Non sono solo gli armeni ad averne sentito le conseguenze. (…) Se noi tenessimo il conto dei dolori che il nostro popolo ha patito negli ultimi cent’anni, avremmo da dire e da rivendicare molto più degli armeni".

Gli osservatori sottolineano una differenza di toni tra il premier Ahmet Davutoğlu ed Erdoğan sulla questione. Mentre il primo è generalmente ritenuto come più conciliante e diplomatico, secondo Etyen Mahçupyan, giornalista turco-armeno e consigliere del primo ministro, l’atteggiamento più duro di Erdoğan nei confronti della diaspora armena deriva dalla preoccupazione di perdere "il 4% dei voti nazionalisti" in prossimità delle elezioni del 7 giugno. Mahçupyan che è arrivato anche ad affermare che "è impossibile non definire genocidio quanto fatto agli armeni nel 1915", pochi giorni dopo ha annunciato di aver ufficialmente concluso il suo incarico "a causa dell’anzianità", aggiungendo che continuerà a svolgerlo "in maniera non ufficiale, senza percepire lo stipendio". In molti hanno naturalmente collegato l’improvviso mutamento di incarico del consigliere alle sue affermazioni.

Il genocidio armeno sul teatro internazionale

Per quanto Erdoğan abbia dichiarato che la risoluzione approvata giovedì scorso dal Parlamento europeo, che ha riconosciuto il genocidio armeno, gli "entri da un orecchio per uscire dall’altro", la terminologia che le istituzioni e le comunità internazionali stanno decidendo in questi giorni di adottare nel commemorare il centenario armeno sono causa di grande turbamento ad Ankara.

La decisione del Parlamento di Bruxelles è andata ad avvallare il discorso di Papa Francesco che, lo scorso 12 aprile, riprendendo un testo di Giovanni Paolo II, aveva detto che quello attuato contro "il popolo armeno" assieme ai "siri cattolici e ortodossi, agli assiri, ai caldei e ai greci, è generalmente ritenuto il primo genocidio del ventesimo secolo". Le parole del pontefice hanno suscitato le proteste di Ankara che ha espresso "disillusione, dolore e perdita di fiducia" nei confronti del Vaticano. "Considerare le sofferenze unilateralmente, prendendo le parti solo di un gruppo di uomini e nascondendo le sofferenze dell’altro, non si addice al Papa e alla posizione che ricopre", ha affermato il premier Ahmet Davutoğlu, criticando le parole di Jorge Maria Bergoglio.

Ora gli occhi sono puntati sul discorso che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama terrà al Congresso il prossimo 24 aprile per commemorare i fatti del 1915. La diplomazia turca sta premendo da giorni affinché il presidente USA eviti, come negli anni passati, di utilizzare la parola "genocidio".

L’ansia di dover affrontare il centenario ha portato Ankara ad anticipare la commemorazione della battaglia di Çanakkale (Dardanelli) – di cui pure si celebrano quest’anno i cent’anni – al 24 aprile per distogliere l’attenzione internazionale dalle manifestazioni armene. A Çanakkale è stato invitato anche il presidente armeno Serzh Sargsyan. Quest’ultimo ha respinto l’invito con una dura lettera rivolta al suo omologo turco, il cui post scriptum recita: "Sua eccellenza, qualche mese fa l’ho invitata a unirsi a noi per la commemorazione delle vittime innocenti del genocidio armeno a Yerevan il 24 aprile. Non è nelle nostre abitudini essere ospitati dall’invitato, senza prima aver ricevuto una risposta al nostro invito".

Ed in Turchia

Intanto però, anche in Turchia vanno avanti i preparativi per il centenario. La comunità turco-armena (circa 50mila persone) assieme a membri della diaspora e parte della società civile turca si sta preparando per la commemorazione che avverrà – come gli anni scorsi– in piazza Taksim, dove si terrà anche un concerto per l’occasione. Ma anche qui non mancano discrepanze e voci discordanti.

La Vadip (Piattaforma di solidarietà e comunicazione tra fondazioni) che è considerata l’organizzazione più importante della società civile turco-armena, ha preparato una comunicazione da leggere il giorno della commemorazione. Tuttavia, secondo quanto riporta il quotidiano turco-armeno Agos, il testo sarebbe stato inviato ai consulenti del presidente Erdoğan per ottenere un parere, scatenando polemiche all’interno della comunità.

Il Patriarcato armeno invece, di cui si sarebbe cercata la collaborazione nel redigere il messaggio, l’avrebbe respinto senza fare alcun commento. Il vicario patriarcale Aram Ateşyan (che sostituisce il patriarca Mesrob Mutafyan II, gravemente malato, e che non è stato eletto dalla comunità armena), ha annunciato che il 24 aprile il Patriarcato ha deciso che non verranno svolte attività commemorative, ma solo una Santa messa. "Spero solo che, quali cittadini fedeli legati a questo paese, potremo trascorrere il mese di aprile senza incidenti spiacevoli e in pace, senza patire dolore e dispiaceri", ha detto l’arcivescovo.

Secondo Harut Özer, esponente della società civile turco-armena, tutto ciò è conseguenza del fatto che la società turco-armena ha "interiorizzato le intimidazioni" e che buona parte di essa non si interessa di tali questioni perché "le è stato strappato via il sentimento di appartenenza". Non è un’affermazione sorprendente dal momento che il presidente Erdoğan solo qualche giorno fa, commentando la risoluzione del Parlamento europeo, ha detto senza troppe remore che potrebbero "deportare sia gli armeni cittadini [turchi] che godono di tutti i vantaggi del nostro paese come quelli che non sono cittadini ma che vengono in Turchia fuggendo dal loro paese".

Non si tratta nemmeno di un commento isolato, dato che Erdoğan aveva già avanzato una minaccia simile nel 2010 (la differenza è che questa volta è estesa anche ai "cittadini"). Non è raro che i politici turchi si "accusino" di essere "armeni" quando vogliono insultarsi. Il sindaco di Ankara Melih Gökçek ha addirittura querelato il giornalista turco-armeno Hayko Bağdat perché questi lo ha (scherzosamente) chiamato "armeno" su Twitter. "Gökçek è una persona che quando non gradisce qualcuno gli chiede se è armeno. Se, come lui sostiene, dare a qualcuno dell’ 'armeno' è un’offesa, allora il sindaco dovrà pagare molte migliaia di lire come risarcimento", ha affermato Bağdat.

Intanto nel mese di aprile le case editrici hanno pubblicato diversi titoli riguardanti la questione armena. Di grande risonanza "Il genocidio armeno" di Raymond H. Kévorkian, pubblicato dalla casa editrice İletişim e presentato come "lo studio più ampio realizzato sulla questione". Numerosi periodici come Birikim, Mesele, Evrensel Dergi, #Tarih hanno invece dedicato l’ultimo numero al centenario. Inoltre, il prossimo 26 aprile, l’Università Boğaziçi farà da padrona di casa ad un convegno internazionale rimasto a lungo nell’incertezza a causa – pare – del titolo: “Il genocidio armeno: concetti e prospettive a confronto”. Secondo le indiscrezioni, l’Universtà Bilgi, che nel 2005 ospitò la prima conferenza sulla “questione armena” e che avrebbe dovuto ospitare anche questo incontro, avrebbe deciso di ritirarsi a causa del termine "genocidio" presente nel titolo.

Segnali di ottimismo

Nel panorama turco, dove prevale ancora forte l’istinto negazionista emergono tuttavia alcuni segnali di ottimismo. La prima è che per la prima volta in cinquant’anni tre figure di origine armena sono stati candidati alle prossime elezioni ai primi posti in tre partiti diversi (l’AKP – islamico moderato, il CHP – partito di tradizione kemalista, e l’HDP – partito guidato da politici curdi ma che si presenta come formazione di sinistra a livello nazionale), mettendo in risalto la composizione di idee variegata che caratterizza la stessa comunità armena.

Una parte della società civile turca, invece, conosce oramai bene ciò che per tanto tempo è rimasto unicamente come un rimosso della memoria e preme per ottenere un cambiamento. "In Turchia c’è un gruppo di cittadini non trascurabile che chiede scusa agli armeni, partecipa nella propria città alle commemorazioni del 24 aprile, legge con attenzione gli articoli e i libri pubblicati sull’argomento e condivide le proprie idee sui social media. Anche se non sono in tanti fanno sì che la questione armena da argomento di politica estera quale è sempre stata, diventi una questione di politica interna”, scrive Ahmet İnsel sul numero della rivista Birikim di questo mese.

Affrontare la questione del genocidio armeno significherebbe per la società turca fare propri i valori della civiltà e dell’umanità. Se mai in Turchia ci sarà un cambiamento, avverrà solo quando la società non sarà più sottomessa alle logiche dello Stato e riuscirà a pensare in maniera autonoma", conclude.


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