Branka, magrissima, vende un foglio di giornale interamente occupato da poesie del suo amico Miroslav Mandić. Poeta, camminatore, monaco, filosofo, meraviglioso cialtrone. L'ultima puntata di un reportage attraverso l'arte contemporanea a Belgrado e dintorni

30/08/2005 -  Anonymous User

Prima puntata, Petar Dobrovic

Seconda puntata, Marmo ghiacciato

Terza puntata, Don Chisciotte ed il professore

Terza puntata, Nostalgia

Di Luca Arnaudo
Novi Sad dista poco più di un'ora in autobus da Belgrado: sede di una rinomata università, è dominata dalla mole di Petrovaradin, imponente fortezza che un tempo era la maggior fortificazione di tutto l'impero austroungarico e ora ospita una comune di artisti assai cordiali. La città è sorta e si è sviluppata lungo un'ansa del Danubio: molti dei ponti che traversavano il grande fiume nei dintorni sono stati distrutti dai bombardamenti della Nato nel 1999, e ancora attendono di essere ricostruiti.

La via per arrivare a Novi Sad parte, almeno in queste pagine, dall'incontro nel centro di Belgrado con Branka, una ragazza magrissima e delicata che, agli angoli delle strade, vende un foglio di giornale interamente occupato da poesie del suo amico Miroslav Mandić. La totale incomprensibilità delle pagine scritte in serbo non impedisce di comprare una copia del giornale (se non altro per il fascino, su una pubblicazione tanto povera, del numero progressivo della tiratura limitata) e poi di fermarsi a discorrere con Branka, la quale intanto ci ha accompagnato in un'improbabile sartoria-libreria aperta da alcuni suoi conoscenti in uno scantinato poco lontano. Mossi dal racconto della ragazza mettiamo in conto una visita a Mandić, dopo averlo contattato telefonicamente al numero che ci ha lasciato la giornalaia mecenate.

Mandić non ha una casa: al momento vive a Novi Sad nell'appartamento che, quando si trova all'estero, gli lascia il suo grande amico Tibor Varady, già ministro della giustizia nell'ultimo governo della Jugoslavia federale, professore di prestigiose università in Europa e Stati Uniti. Il caseggiato in cui Mandić ci dà appuntamento, una tarda domenica mattina, è piuttosto anonimo, ma dal terrazzo si gode una vista meravigliosa della fortezza Petrovaradin sull'altra sponda del fiume. Incontriamo dunque un uomo robusto di quasi sessant'anni, lo sguardo intenso e cortissimi capelli brizzolati: parla un inglese stentato con cui si informa brevemente su chi siamo e ci insegna a preparare un caffè alla turca che poi beviamo insieme in salotto, seduti attorno a un tavolo.

Ignoro se si sia trattata dell'ennesima ripetizione di una teatralità già sperimentata, ma è stato comunque affascinante osservare questo artista prendere una grossa matita - di quelle con la mina composta da grafite in più colori - e iniziare a narrare la storia della sua vita disegnando su un ampio foglio bianco. Mandić accompagna il racconto con schizzi e appunti volanti che si accumulano fino a confondersi l'uno con l'altro: il disegno di un'infanzia trascorsa in povertà nella campagna di Novi Sad si alterna così a quello di promettenti successi calcistici nei primi anni sessanta, presto abbandonati per dedicarsi a una disordinata ma appassionata formazione artistica da autodidatta, a cui seguono le prime esperienze nelle avanguardie letterarie in compagnia di alcuni amici poeti. Nel 1970 Mandić, appena ventunenne, fonda il gruppo KOD, ovvero l'esperienza più avanzata e riconosciuta del concettualismo in Jugoslavia; la traccia sul foglio s'ingarbuglia seguendo il filo di un anno tanto intenso quanto dispersivo, concluso con un virulento articolo in cui Mandić dichiara, tra le altre cose, di voler abbandonare l'arte. Il testo è talmente violento nei confronti della società jugoslava del tempo da portare alla condanna del suo autore a nove mesi di carcere, durante i quali l'artista attraversa una profonda crisi interiore. Uscito dal carcere, Mandić si ritira a vivere per quasi dieci anni isolato in campagna, convinto di essere colpevole in maniera ben più ampia di quanto ritenuto dal giudice: è una colpa, dice, rispetto alla vita stessa semplicemente per il fatto di essere vivi, e che per questo richiede un'espiazione continua. Forse per dare una forma gestuale a un simile sentimento di colpa e al tentativo ossessivo di liberarsene, Mandić inizia a camminare lungo percorsi sempre più estesi, dedicandosi nello stesso tempo a letture di mistici, alla fotografia e al disegno ripetuto di poche immagini, sempre le stesse. Al 1984 risalgono quattro lunghe passeggiate, dedicate a poeti molto amati; l'ultima, da Charleville a Londra, intende collegare Rimbaud a Blake terminando sulla tomba di quest'ultimo. E' lo stesso punto da cui Mandić riparte, il 9 settembre 1991, per un progetto dall'impressionante estensione: dieci anni di cammino ininterrotto lungo l'Europa, disegnando un'immensa rosa con i propri passi. 'The rose of wandering', la rosa del vagabondare, è l'opera monumentalmente concettuale che Mandić ha preparato per ben tre anni e a cui si è dedicato fino al 9 settembre 2001, coprendo oltre 60.000 chilometri e raccogliendo le proprie annotazioni poetiche lungo il cammino in dieci volumi, pubblicati a cadenza annuale. Sono libri di piccolo formato, rilegati con una modesta copertina azzurra e stampati su carta di pessima qualità: ciononostante, disposti sul tavolo - sopra il foglio autobiografico sempre più colorato e confuso - s'impongono all'attenzione per un loro singolare magnetismo evocativo, cippi di un cammino mitologico lungo il quale l'autore s'interroga di continuo sulla propria origine e destinazione, con passo leggero e penna ispirata.

"Vagabondare è un libro da scrivere, dipingere e camminare.
Vagabondare è una chiesa. Un santuario mobile.
Vagabondare è scoprire il centro.
Vagabondare è venerare la periferia.
Vagabondare è la casa."
Poeta, camminatore, monaco filosofo, meraviglioso cialtrone, mistico artista, Mandić continua irrefrenabile a raccontare e disegnare ed è come se fosse non soltanto il foglio ma la vita intera a non bastargli per contenere la sua irrefrenabile energia. Lo seguiamo nella camera da letto, dove custodisce centinaia di disegni di un'unica foglia, raccolti in alcune scatole su uno scaffale a poca distanza dal diploma rilasciato al suo amico Tibor dall'Università di Harvard. Mentre mostra il suo tavolo di lavoro, disposto davanti a un'ampia finestra che offre il limpido panorama del Danubio solcato da un ponte provvisorio di ferro, rifletto sulle linee misteriose che collegano punti ed esseri e cose in questo mondo: un giurista di chiara fama a un artista senza fissa dimora, due viaggiatori di passaggio per Belgrado a una fotografia sbiadita o a un grafico gentile, un pittore rivoluzionario a un ambasciatore surrealista. Torna così, improvvisa in mente, una frase del gran poeta Gary Snyder a proposito di "un universo caotico dove tutto è al suo posto", e penso allora che al di sopra della vita che scorre sono le storie - vissute, lette, raccontate, ascoltate - il ponte possibile e incrollabile tra ogni ente, e che raccontare è questo continuo collegare posti in un viaggio che si fa parola, cercando un ordine personale nel caos universale. Salutato Mandić, usciamo di casa a pomeriggio ormai inoltrato: il mondo riappare all'improvviso alla luce calda del sole, pieno di strade dove i passi si fanno via via più leggeri, e il viaggio prosegue in silenzio.


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