
© - André Cunha
Il presidente del Consiglio Europeo Antonio Costa ha mostrato larghi sorrisi insieme al presidente Vučić durante la visita lo scorso maggio a Belgrado. Un sorriso che ha provocato la lunga riflessione del nostro André Cunha, anche lui originario di Lisbona. Una lettera aperta
Dear António,
La prego di scusarmi per l'informalità, e l’iniziativa di scriverle la lettera aperta che segue. Non posso dire che ci conosciamo perché, in verità, ci siamo incrociati pochissime volte – al telefono e ancora meno di persona – io come giornalista, lei come ministro in diversi esecutivi portoghesi, come sindaco di Lisbona, la mia prima “città bianca” (l’altra è, letteralmente, Belgrado) e, più tardi, quando è stato primo ministro del Portogallo; prima di diventare oggi Presidente del Consiglio europeo.
Ad esempio, mi ricordo di lei in un altro secolo, nel Parlamento portoghese, nella primavera del 1999, quando era ministro degli Affari Parlamentari nel governo di António Guterres (attuale Segretario Generale dell’ONU), un governo portoghese che ha sostenuto i bombardamenti della NATO sulla Serbia senza l'approvazione delle... Nazioni Unite.
Faceva riferimento anche a questa decisione del 1999, quando a Belgrado ha sostenuto che non si può riscrivere la Storia?
Come avrà sicuramente notato, le scrivo in seguito alla sua ultima visita nella capitale serba. Mi dispiace di non averla invitata a prendere un caffè, ma l’ho immaginata impegnatissimo, sin dal suo atterraggio.
E proprio lì, all'aeroporto Nikola Tesla, il suo primo sguardo complice e caloroso ha elettrizzato la pagina Instagram del presidente A.V., magnanimamente auto-intitolata buducnostsrbijeav (il futuro della Serbia AV). Eccovi qui, quasi abbracciati, con le sue mani che tengono amorevolmente le braccia del “dear Aleksandar”, come lo chiamerà almeno due volte nelle dichiarazioni congiunte.
Un mezzo abbraccio e un'aria sorridente e rilassata, quasi in diretta Instagram, nello stesso momento in cui gli studenti ultra-maratoneti arrivavano in piazza Schuman, dopo una staffetta di 1933 km da Novi Sad a Bruxelles, per chiedere alle istituzioni europee di prestare maggiore attenzione a quello che è, in proporzione, il più grande movimento studentesco di tutta Europa in questo XXI secolo!
Le è mai venuto in mente che sorridendo e quasi abbracciando Vučić, stava offrendo al regime - su un piatto d'argento - un'immagine che poteva essere definita, forse, come la banalità della diplomazia? Non si possono editare le fotografie che passeranno alla storia, “dear” António.
A proposito, potrei chiederle se il protocollo richiede, o almeno consiglia, di sorridere? Cerco una fotografia precedente, a Bruxelles, quando lei e Ursula Von der Leyen avete invitato a cena il presidente serbo lo scorso marzo – poco dopo l’oceanica manifestazione studentesca del 15 marzo – ed ecco di nuovo il suo “sorriso da allargamento”.
Vučić è al centro. Von der Leyen dall'altro lato, con l’aria che in portoghese potremmo definire "faccia da funerale". In pratica è quello che fa quando sorride accanto ad Aleksandar o Viktor (Orbán), i due con-padrini geopolitici del Danubio. Lo chiama anche dear Viktor?
Ma, caro António, si rende conto che potrebbe uccidere il sogno europeo più puro e idealistico di molti dei nostri concittadini serbi (e anche ungheresi, ed europei in generale) quando sorride in quel modo accanto a uomini con il loro curriculum vitae?
Lei saprà meglio di me che il protocollo non le avrebbe impedito di tenere un incontro, pubblicizzato o più discreto, con gli studenti. Avrebbe rappresentato la sua volontà politica e al tempo stesso un gesto democratico: essere faccia a faccia – senza falsi sorrisi – con i giovani che con le loro blokade e la loro energia hanno risvegliato una società, provocando il più grande movimento sociale degli ultimi decenni nell’ex Jugoslavia. Probabilmente il primo grande sprazzo di un movimento post-Trump in tutta Europa.
Detto così, sembra anacronistico, ma non così tanto: Vučić è pur sempre uno dei pionieri del trumpismo prima di Trump (e del putinismo durante Putin), se esploriamo il filone di analisi di Dubravka Stojanović, quando la storica serba sostiene che il populismo moderno è stato praticato in modo pionieristico in Serbia già nel XIX secolo.
In questo senso, è stato anche un pionierismo, con specificità regionali, il turbo-nazionalismo-populismo fascistizzante che Milošević ha fondato sul sangue degli anni Novanta e il cui pathos più raffinato Aleksandar Vučić ha scolpito, con l'avanzare di questo secolo, nella forma esatta del suo ego, in una mutazione contemporanea senza trascurare l’anima del DNA originario. Non a caso un altro storico, Milan St. Protić, ha definito Putin “Veliki Milošević”, poco dopo l’invasione della Ucraina del 2022.
António, ciò che qui è davvero nuovo, da più di sei mesi, non solo in questa bollente Serbia ma anche nella nostra Europa sonnambula, sono questi studenti. E lei non ha voluto ascoltarli, “da un orecchio all’altro”.
Non oso suggerire che avrebbe potuto visitare una delle decine di facoltà occupate, soprattutto perché non sono sicuro che un qualsiasi plenum studentesco approverebbe la sua visita, tale è la delusione di tutti per la complicità organica dell'Unione Europea con questo regime, in nome di una stabilocrazia (o litiocrazia?) tutt'altro che democratica. A proposito, le consiglio di leggere questa fondamentale testimonianza di Danijela Nenadić, qui su OBCT.
Nel frattempo, mi lasci immaginare un suo incontro con gli studenti alla “znak pitanja” [punto interrogativo n.d.r.], la più antica kafana di Belgrado. Bella metafora per ascoltare l’altro, indagare il futuro in un luogo tradizionale chiamato “punto interrogativo”. Bastava questa foto, nessuna press conference...
Dopo il caffè turco, scommetto che gli studenti la avrebbero invitata a fare un salto, magari a piedi, al Padiglione d'arte Cvijeta Zuzorić, per vedere la mostra Medjuprostor (Interluogo), dove studenti-artisti di cinque università hanno riflettuto sulla “Storia del presente”, in una mostra collettiva e anonima composta da alcune decine di opere [chiusa il 18 maggio].
In questa ipotetica visita guidata, avrebbero potuto mostrarle alcuni dei tanti poster e striscioni che hanno riportato “la poesia nelle strade”, come nel maggio ‘68 a Parigi o negli anni più felici della rivoluzione dei garofani nella nostra Lisbona.
Non ero ancora nato, non lo posso ricordare, ma lei, dear António, non avrà certo dimenticato di aver attaccato – ancora adolescente - i poster durante il PREC [“Processo Rivoluzionario in corso”], di sicuro con un garofano sul risvolto, mentre sua madre – la grande giornalista e femminista Maria Antónia Palla – poteva finalmente scrivere prose non censurate, come quel primissimo reportage libero coniato dalla sua mitica frase, "cosa farò con questa libertà?".
Che bel “ritorno al futuro” avrebbe potuto essere questo momento: António, l'ex studente liceale degli anni '70, con gli studenti serbi di oggi. I poster di oggi con sogni così simili a quelli di ieri. La Storia non si ripete, ma si assomiglia.
Ed altre volte, s’inverte, come un negativo fotografico.
La prego, andiamo lì in quell'angolo… Ci sono 99 vecchie sedie di facoltà ammucchiate, sedie di studenti che, invece di sedersi a prepararsi per il prossimo esame, sanno, come vanno dicendo per strada, che "il vero esame, mamma, è quello della coscienza".
Eccolo come gli artisti, giovani di oggi o veterani di fama mondiale da decenni, rappresentano gli spazi intermedi – inter-luoghi - tra passato e futuro: a volte si accumulano sedie, simbolo di proteste pacifiche, come a Belgrado nell'interminabile anno accademico 2024/2025; altre volte ossa di animali bagnate di sangue, simboli della banalità del male, come a Venezia nel 1997, nella performance “Balkan Baroque” che valse il Leone d’oro della Biennale all’ex studentessa d’arte di Belgrado Marina Abramović.
“Cosa farò con queste ossa?”
Erano ossa che Marina puliva cantando una canzone d’infanzia. Meno di due anni prima, nel parlamento di Belgrado e con il sangue del genocidio di Srebrenica ancora non rappreso (il mondo non lo sapeva ancora...), l’allora giovane deputato del partito radicale Aleksandar Vučić, oggi il suo dear Aleksandar, difendeva una frase che la Storia non pulirà mai: “se uccidete un serbo, noi uccideremo cento musulmani”.
Era già una parafrasi a quel tempo, ma sembra proprio anche una parafrasi oggi, che da Srebrenica porta a Gaza, no? Mai più?
So che lei ha fretta, signor Presidente del Consiglio europeo, questa digressione è già lunga e la immagino un po' impaziente (o infastidito?), ma la prego di salire queste scale e di non perdersi questa lunghissima vetrina.
L’opera si apre con un’indicazione chiara: “Guarda attraverso la lente d’ingrandimento”. Diverse decine di foto formato cartolina postale compongono un caleidoscopio degli ultimi mesi. Tanti angoli di una matrioska di lotte e cause. Guardando attraverso la lente d'ingrandimento facciamo un intimo zoom in nei dettagli. Sembra che tutto stia ancora succedendo, proprio live davanti ai nostri occhi; e infatti è proprio così. L'Europa preferisce non guardare, ma in Serbia sta succedendo qualcosa.
Anche con la lente di ingrandimento, non vale la pena cercare in queste tante immagini la bandiera blu a dodici stelle dell'Unione Europea. Non ne troverete alcuna tra le centinaia e centinaia di bandiere e striscioni stesi sui mari di gente che hanno fatto traboccare la Serbia in un grande esercizio democratico di terapia di gruppo.
Sto per finire questa missiva, ma non posso non raccontarle la storia di un monumento europeo unico, presente in due o tre delle fotografie di questa vetrina e fin’ora onnipresente nella memoria storica di Belgrado, ma che sta scomparendo dalla realtà proprio mentre le scrivo: lo Stari Savski Most, il vecchio ponte sul fiume Sava.
Il suo mitico arco verde ("verde ti amo verde, vecchio ponte") fu edificato, ai tempi della prima Jugoslavia, per essere sospeso sul fiume Tisa, ma gli occupanti nazisti lo trasferirono nel 1942 sul Sava, collegando la città al campo di concentramento dello Staro Sajmiste.
Furono i prigionieri del campo a costruire, coi lavori forzati, i pilastri che hanno sostenuto il ponte per tutto questo tempo; alcuni di loro sono stati fucilati nel campo o morti nei “camion del gas” che qui circolavano: ebrei all’inizio, in seguito serbi antifascisti e anche rom; molti di questi ultimi furono sepolti in fosse comuni, proprio sulla riva occidentale del ponte.
Quando si ritirarono nel 1945, i nazisti caricarono di dinamite lo Stari Savski Most per farlo saltare in aria, ma Miladin Zaric, un insegnante locale, riuscì a tagliare il filo esplosivo e a salvare la Storia. Non possiamo riscrivere la Storia – come ha giustamente detto Vostra Eccellenza – ma spesso possiamo salvarla.
È ciò che hanno provato a fare attivisti, uomini e donne che per diversi mesi hanno campeggiato giorno e notte all'ingresso del ponte, in una blokada pionieristica iniziata ancora prima del movimento studentesco. E sono stati proprio loro, Milica, Nevena, Irena, Tanja, Hemna, Ljubinka e... Jelena, corpi di toro che reincarnavano l’anima della dea Europa, donne che in un giorno d'inverno stendevano le loro braccia come ponti, offrendo garofani alla polizia antisommossa.
Garofani, come nell’aprile del 74 a Lisbona, “rivoluzione, amore mio”.
Ma lo Stari Savski Most sta morendo.
Più forte dei nazisti, più forte delle bombe della NATO, il ponte non può resistere ai colpi del regime del vostro dear Aleksandar che riesce a cancellare definitivamente dal panorama di Belgrado una delle sue più grandi icone: un monumento che era anche un simbolo europeo, dell'Europa stessa sopravvissuta al fascismo, la storia che ha partorito la futura Unione Europea. Mai più?
Soltanto l'arco centrale resta in piedi, orfano, un'isola di ferro verde in mezzo al fiume. Probabilmente nulla quando questa lettera arriverà a Bruxelles. Dov'è ora il suo sorriso da Requiem, "Signor Unione Europea"?
Ai margini di Novi Beograd, arriveranno presto i tentacoli “urbicidi” del turbo-kitsch Belgrade Water Front – la riscrittura della Storia nel paesaggio, firmata dal regime. Proprio li, dove un tempo sorgevano il Parco della Memoria e alcune delle fosse comuni degli orrori nazisti, i caterpillars hanno smosso il terreno, cancellando l'archeologia forense della banalità del male.
Questa distopia è qui, ma è anche un piccolo specchio – piccolo ma infinitamente simbolico del nostro tempo – se pensiamo alla Riviera mostruosa con la quale i nuovissimi architetti del male sognano occupare Gaza post-Gaza.
L’annunciata e paradossale “fine della Storia” è in arrivo da sempre: siamo noi. Noi davanti a nostri propri occhi: la fine dei ponti, la fine della memoria. La fine delle ossa, la fine del valore stesso della morte.
E cosa può ancora salvarci?
Le donne con i garofani in mano, sempre.
E l'ultimo arco che è ancora un ponte verso il futuro: il sorriso di questo fiume di studenti.
André Cunha
Belgrado, Giugno 2025.
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