La copertina di uno dei numeri della rivista Praxis

Nel settembre 1964 usciva a Zagabria la rivista filosofica Praxis. La sua avventura finì dieci anni dopo, soffocata dalle autorità. A mezzo secolo da allora cosa rimane? Una rassegna

13/11/2014 -  Vittorio Filippi

“Vogliamo una rivista filosofica, nel senso in cui la filosofia è il pensiero della rivoluzione: la critica spietata di tutto l’esistente, la visione umanista di un mondo veramente umano e la fervente forza dell’operare rivoluzionario”. Con queste parole forti Gajo Petrović, nel suo articolo introduttivo (Perché Praxis?) avviava a Zagabria l’avventura della rivista Praxis, il cui nome greco rimandava al pensiero aristotelico poi ridefinito da Marx. Correva il mese di settembre del 1964.

Già, perché Praxis, possiamo chiederci oggi, esattamente cinquanta anni dopo. L’esperienza prassista fu tutto sommato breve, quasi una meteora nella storia jugoslava e della stessa sinistra marxista. Durò solo dieci anni, ma fu una storia tanto travagliata quanto intensa. Ed ebbe radici interessanti. Radici che, in sintesi, si trovano nella stessa identità della Jugoslavia del dopoguerra.

Le radici

Situata sulla storica faglia tra oriente ed occidente, dovette elaborare una identità ideologica sui generis, originalmente “terza” tra il mondo sovietico e quello occidentale, capitalistico ed atlantico. Il socialismo titoista, affermatosi come forza di governo dopo una sanguinosa lotta di liberazione, metteva implicitamente in discussione il dogma staliniano dell’“unica via al socialismo”. Per questo motivo, dopo il rapporto Zdanov che criticava il socialismo jugoslavo in quanto compromesso con il capitalismo, comparvero le lettere di Stalin e Molotov che condannavano Tito in quanto fautore di una politica antisovietica, come liquidatore del partito e come un opportunista che introduceva il capitalismo all’interno di una economia socialista. Nel luglio del ’48 la rottura con l’Urss di Stalin si consumò definitivamente.

Si avviò allora in Jugoslavia quello che fu definito il marxismo creativo: un marxismo che voleva platealmente distanziarsi dalla vulgata sovietica fatta di un determinismo economicista e di un materialismo alquanto dogmatico. E che nel giugno del 1950 ispirò una legislazione che intendeva affidare ai collettivi operai la direzione delle imprese. Era il cosiddetto socialismo autogestito, in contrapposizione a quello burocratico di impianto sovietico. I fondamenti sono contenuti nel Programma di Lubiana elaborato nel 1958, in cui i teorici jugoslavi muovevano dalla nozione marxiana di “socializzazione dei mezzi di produzione” non esaurendola però nella “nazionalizzazione socialista” di stampo sovietico. La dottrina jugoslava non negava il carattere sociale della proprietà statale dei mezzi di produzione, ma la considerava come una forma più bassa, embrionale, di proprietà sociale (detta indiretta).

Gli scritti di Marx sulla Comune di Parigi, nei quali l’essenza del comunismo veniva individuata nella “libera associazione dei produttori diretti”, portarono gli ideologi jugoslavi ad affermare che “Il socialismo è un sistema sociale basato sulla socializzazione dei mezzi di produzione, in cui la produzione sociale è guidata dai produttori diretti associati”. Rispetto alla proprietà statale si puntava ad una autogestione dei produttori unita ad una limitazione dell’attività economica dello Stato e ad una estensione delle decisioni autogestite attraverso un crescente decentramento della stessa politica. Tale decentramento avrebbe aperto la strada ad un “mercato socialista” in cui i protagonisti non dovevano essere i soggetti privati, ma i produttori associati, i collettivi di lavoratori. Le posizioni teoriche sviluppate nel Programma del ’58 trovarono una prima realizzazione nella riforma economica del 1965 e poi nella farraginosa (ed ultima) costituzione del 1974.

Il gruppo di Praxis a Korcula negli anni '60

Il gruppo di Praxis a Korcula negli anni '60

Nei tumultuosi anni cinquanta si promossero discussioni e convegni che accompagnarono, sul piano della riflessione filosofica, il superamento della tradizione sovietica. Importanti furono la nascita a Zagabria della rivista Pogledi (Sguardi), a Belgrado della rivista Filosofija ed il convegno tenutosi a Bled nel 1960 per rivedere la teoria leninista del rispecchiamento. E nel 1963 venne avviata nell’isola di Curzola una Scuola estiva di filosofia aperta ad intellettuali europei connessa, fin dall’anno successivo, alla rivista Praxis. Pubblicata dalla Società filosofica croata, la rivista avrà dal 1966 anche una edizione internazionale in tre lingue, sostenuta da un comitato di redazione del quale faranno parte anche intellettuali italiani.

I prassisti e il potere

Le frizioni con il potere iniziarono subito. Perché i prassisti sottoposero a severa critica l’insufficienza dell’autogestione e le sue contraddizioni, che atomizzavano la classe operaia e la piegavano ai burocrati statali ed ai tecnocrati aziendali. Ripetere retoricamente “le fabbriche agli operai” non realizzava lo slogan “tutto il potere alla classe operaia”, che tale rimase. Piuttosto il senso vero dell’autogestione “integrale” andava invece ricercato “nella creazione di una nuova persona storica e di rapporti sociali nuovi, capaci di abolire la dipendenza dell’uomo da singoli, da gruppi o gerarchie”, come scrisse Vranicki. Invece la deriva liberaldemocratica e proudhoniana dell’autogestione (così la definì Supek) stava già generando negli anni settanta una consistente classe media, un capitalismo piccolo borghese che aveva orizzonti solo nazionali se non nazionalistici (e quindi alla fine secessionistici, come racconteranno gli anni novanta di Milošević e di Tudjman).

Se negli anni sessanta i prassisti criticavano gli elementi stalinisti ancora presenti nella società jugoslava, negli anni settanta iniziarono a criticarne gli insorgenti elementi borghesi. Che si manifestavano attraverso il nazionalismo della Primavera croata e del Maspok nel 1971. E che si intravvedevano anche nel mancato deperimento dello Stato e del mercato (che non andrà oltre il decentramento) e nelle distorsioni alienanti dell’autogestione, quando invece questa era il succo del socialismo umanista di Praxis. La “critica spietata di tutto l’esistente” irritava il potere ed alla “rivista eretica” (come la chiama Bogdanić nel suo libro sulla storia della rivista), accusata di essere su posizioni anarco-liberali, nel dicembre del ’74 vennero semplicemente tolti i finanziamenti per la pubblicazione. E così terminava nel silenzio anche l’esperienza curzolana.

Oggi, a distanza di tanti anni e di così tanti eventi, rimane da chiedersi se la breve storia di Praxis vada ricordata all’insegna della mera commemorazione (storica e forse nostalgica) o invece come possibile suggerimento per il tempo attuale. In questo caso occorre chiedersi quale può essere oggi la validità del suo contributo per la flebile sinistra che sopravvive nei Balcani post-jugoslavi o addirittura per la sinistra tout-court, europea od occidentale che sia. In ogni caso appare ben difficile negare la freschezza delle parole di Petrović quando propone la “visione umanista di un mondo veramente umano”. Perché esattamente cinquanta anni dopo le necessità della critica come prassi di verità, della libertà dell’individuo come condizione della libertà di tutti e di una antropologia assolutamente umanista appaiono davvero irrinunciabili per le sfide emancipatorie dell’epoca presente.


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