Caritas Italiana è uno degli organismi che ha seguito con maggiore continuità lo sviluppo delle crisi nella regione dei Balcani. Organismo religioso, si è trovata ad operare in un'area che ha spesso trasformato la fede in una bandiera ideologica. Un'intervista a con Laura Stopponi, responsabile dell'Ufficio Europa

21/03/2006 -  Francesco Martino

Quando si parla di cooperazione nei Balcani, subito si pensa all'ex Jugoslavia. Quali sono oggi le attività di Caritas Italiana in questa regione?

In Serbia e Montenegro Caritas Italiana lavora nel campo della salute mentale, con un progetto di de-istituzionalizzazione degli ospedali psichiatrici. In Kosovo supportiamo il Kosovar Center for Self-Help, un'organizzazione di gruppi di mutuo aiuto, e una radio locale, Radio Novo Brdo, che viene gestita da un'associazione di ragazzi serbi e albanesi. In Bosnia è in partenza un progetto di sviluppo di attività agricole nella zona di Banja Luka, cofinanziato dal ministero degli esteri, mentre da tempo lavoriamo al rafforzamento della rete di associazioni di familiari di scomparsi ed ex detenuti. In Macedonia le attività si concentrano nel settore dell'integrazione scolastica della comunità rom. Supportiamo da anni un asilo di Skopje per favorire l'inserimento nella scuola dei bambini rom, che seguiamo nei primi anni delle elementari con attività di doposcuola.

Cosa succede nelle altre nazioni balcaniche?

Per l'Albania, è stato appena approvato un progetto che mira al reinserimento socio-lavorativo di ragazzi e ragazze albanesi espulsi dall'Italia, soprattutto da Roma e zone limitrofe e dalla Puglia. Questo progetto, che verrà realizzato insieme a Caritas Albania ed al Comune di Roma, ha come obiettivo la creazione di micro imprese che possano facilitare il reinserimento dei giovani interessati nella loro zona di provenienza. In Bulgaria e Romania non abbiamo attività di tipo continuativo, ma abbiamo dato un supporto di tipo finanziario dopo le alluvioni che hanno colpito questi paesi nell'estate del 2005.

Sono passati più di dieci anni dalla fine della guerra in Bosnia e sette dal conflitto in Kosovo. Come è cambiato l'approccio della Caritas Italiana all'intervento in questa zona del mondo?

In realtà non è l'approccio ad essere cambiato, ma le attività. L'approccio rimane lo stesso, entrare nell'emergenza a fianco della Chiesa e delle Caritas locali, accompagnando chi conosce meglio di noi il territorio perché ne è parte integrante. Questo accompagnamento si è realizzato in un primo momento in attività di risposta all'emergenza, per poi trasformarsi, a distanza di anni, nell'attività di rafforzamento delle loro strutture, attraverso un miglioramento delle loro capacità progettuali. Vorrei sottolineare che, proprio in questo contesto, portiamo avanti programmi di rafforzamento delle Caritas parrocchiali in tutti i paesi dell'area.
Certo, oggi c'è una forte riduzione del personale italiano di Caritas Italiana nei Balcani, che si è ridotto da un massimo di 15 operatori, ad uno soltanto, ma si sta pensando di aumentare il numero di volontari in servizio civile volontario all'estero, per dare un segno di una presenza e di un'attenzione sempre vive.

La Caritas Italiana è un organismo della Conferenza Episcopale Italiana. Essere identificabili con una Chiesa, quella cattolica, in un'area come quella balcanica, dove la fede ha avuto un ruolo di forte contrapposizione, in che modo ha influito sul lavoro di Caritas Italiana?

Essere identificati come un organismo religioso, espressione della Chiesa cattolica, ha rischiato talvolta di dare l'idea di un'organizzazione di parte, in una realtà religiosa composita come quella dei Balcani. E' attraverso il lavoro concreto degli operatori e nella costruzione delle relazioni che si è potuti arrivare a far conoscere la Caritas non solo come un'organizzazione della Chiesa cattolica, ma come un organismo che si è fatto carico dei bisogni di alcune fasce di emarginazione, a prescindere dall'identità religiosa. Grazie a questo lavoro e al fatto di aver avuto operatori locali sia musulmani che ortodossi, soprattutto in Kosovo, non abbiamo mai avuto grandi problemi nel lavorare in questo contesto.

Oggi però, anche a livello globale, l'utilizzo dei simboli religiosi come elementi di identità contrapposte sembra inasprirsi più che scemare. Questo fenomeno ha comportato dei cambiamenti nel lavoro di Caritas Italiana nel contesto balcanico?

Considerate le attività che stiamo portando avanti in questo periodo, e con particolare riferimento al processo di rafforzamento delle Caritas locali, non abbiamo percepito nuovi sintomi di difficoltà. I rapporti con le altre comunità religiose continuano ad essere buoni e nel caso della Bosnia, che sicuramente è quello più complesso, così come in Serbia, il lavoro di presenza fatto fino ad oggi sembra portare i suoi frutti, permettendoci di lavorare senza problemi rilevanti.

Ma quali sono le caratteristiche delle Caritas balcaniche? Ci sono dei tratti che le accomunano?

Innanzitutto bisogna dire che, con l'eccezione della Croazia e parzialmente della Bosnia, si tratta di piccole Caritas, espressione di minoranze, visto che in questi paesi le comunità cattoliche sono di piccola entità. D'altra parte però, sono organismi che hanno disponibilità finanziarie sufficienti per potersi attivare sul territorio, potendo beneficiare del supporto di Caritas più ricche. Questo ha comportato senza dubbio grandi possibilità, ma anche un limite, perché grazie a questi interventi esterni talvolta le Caritas dei Balcani si sono sovradimensionate, a grave rischio della propria sostenibilità. Oggi il nostro obiettivo è quello di aiutarle a trovare una giusta dimensione, che consenta loro di essere sì espressione delle proprie comunità, ma anche a servizio di tutta la popolazione.

Che tipo di dialogo esiste tra le Caritas balcaniche, e in che modo Caritas Italiana opera per sviluppare le relazioni regionali tra questi organismi?

Le Caritas della regione stanno lavorando insieme, soprattutto grazie al network di Caritas Europa. Questo si concretizza in varie attività, che vanno dal semplice incontrarsi, alla formazione di gruppi di lavoro su base regionale su temi diversi, come assistenza domiciliare, integrazione dei rom e Aids. Caritas Italiana cerca di rafforzare ulteriormente questo dialogo promuovendo collaborazioni regionali, col supporto ad un programma di sviluppo delle Caritas parrocchiali e sul tema del peace-building. Certo qualche difficoltà esiste ancora, ad esempio nella definizione dei ruoli tra Caritas Serbia e Montenegro e Caritas Kosovo, che ufficialmente ne fa ancora parte, anche se di fatto tende a porsi come una Caritas nazionale. Nel complesso però direi che le Caritas balcaniche possono essere un valido strumento di dialogo tra diverse comunità.

In questi anni è diminuito l'interesse della cooperazione verso i Balcani, anche in termini di fondi a disposizione?

E' certamente diminuito il flusso delle donazioni fatte a livello personale, oggi è difficile raccogliere fondi per i Balcani, che non vengono più visti come una zona di emergenza. C'è da dire che è venuto anche meno il ruolo dello stato come donatore diretto. I fondi adesso sono reperibili soprattutto a livello regionale, ma questo rende piuttosto difficile accedervi, e l'impressione è quella di una forte frammentarietà degli interventi.


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