Un'immagine tratta da "The search"

Nell'ultima edizione del festival di Cannes numerosi i lavori provenienti da paesi dell'ex spazio sovietico. Una rassegna

12/06/2014 -  Nicola Falcinella

Si è parlato tanto di paesi dell’ex Urss, tra Caucaso e Ucraina al festival di Cannes.

Tratta il secondo conflitto in Cecenia “The Search” di Michel Hazanavicius, il regista premio Oscar per “The Artist” che cambia completamente genere e toni rispetto al suo recente passato. Un film molto ambizioso e riuscito solo in parte, presentato in concorso senza ricevere premi, ma comunque meritevole di attenzione.

Più storie si intersecano a partire dall’ottobre 1999. Un soldato russo riprende con la videocamera l’uccisione a sangue freddo di una famiglia da parte dei suoi commilitoni. Sopravvive il piccolo Hadji che assiste dalla finestra insieme con il fratellino neonato e riesce a prenderlo e a scappare.

Dopo aver abbandonato il più piccolo sulla porta di una casa in campagna, il ragazzino rocambolescamente varca la frontiera con l’Inguscezia e raggiunge un centro per ragazzi. Non resiste alla vita nell’istituto e scappa, imbattendosi poco dopo in Carole (Berenice Bejo), che lavora per conto dell’Unione Europea. La donna accoglie in casa Hadji, che non parla e sembra non reagire.

Intanto Raissa, la sorella più grande risparmiata all’ultimo secondo dai soldati, si mette alla ricerca del piccolo mentre sogna di emigrare negli Usa. C’è poi la storia di Kolia, ventenne russo che finisce a combattere in Cecenia per un ricatto: trovato con poca droga (di un amico) e arrestato, gli viene offerto l’esercito come alternativa al carcere. Le storie procedono in parallelo, tra un registro quasi neorealista, uno bellico e uno sentimentale.

Il terzo capitolo del film è il più debole e prevedibile, nonostante l’impegno della Bejo e lo slancio del personaggio che interpreta: una idealista che riesce ad andare a Bruxelles per tenere una relazione, davanti a una platea poco numerosa, disattenta o dormiente, su quel che l’Europa potrebbe fare e non fa. In questo senso è quasi un ritorno, con meno forza, ai temi di “No Man’s Land” di Danis Tanovic, all’indifferenza, all’incapacità, all’egoismo degli altri paesi.

La parte più interessante è invece quella che riguarda Kolia, della sua educazione militare alla violenza gratuita e alla prevaricazione. Hazanavicius, francese di origine lituana, realizza il suo primo film drammatico confermando il suo talento e la sua ambizione. Forse è l’eccesso di ambizione, il voler mettere troppe cose, la causa dei difetti del film, ma allo stesso tempo è anche una ragione per perdonargli gli errori. “The Search” è un film che, come già “The Artist”, forse non suscita l’approvazione dei cinefili ma sa parlare a un pubblico più largo e di temi non facili.

In piazza a Kiev

Il bielorusso, trapiantato in Germania, Sergei Loznitsa ha presentato fuori concorso “Maidan”, forte documentario girato a Kiev tra novembre a febbraio durante le proteste di piazza contro il presidente Yanukovich. Le oltre due ore di film si aprono sulla folla che canta l’inno nazionale. Sono in prevalenza uomini e di una certa età, come la maggioranza di quelli che si vedranno occupare la piazza nei mesi seguenti.

Non c’è commento nel film e non ci sono spiegazioni, se non rarissime didascalie, la voce off è rappresentata dagli speaker della piazza che danno indicazioni ai manifestanti. Si vedono preparare gli accampamenti, innalzare bandiere, cucinare, costruire barricate, ascoltare musica e cantare (magari “Vitia ciao, Vitia ciao” sulle note di “Bella ciao” per invitare l’ex presidente, che di nome fa Viktor, ad andarsene). Sul palco si alternano religiosi, politici e poeti improvvisati. Non si capisce bene cosa facciano i manifestanti, non si capisce che cosa vogliono, parlano di “popolo”, di “dignità”, “libertà”. Si sentono chiari i sentimenti anti-russi. Di Europa, invece, non si fa quasi menzione. Poi l’escalation, fino agli scontri cruenti e alla repressione.

Loznitsa filma lunghe scene quasi di guerra, prevalentemente da un unico punto, aumentando così l’intensità della situazione. Seguono i funerali di tre dimostranti uccisi, in una tensione pressoché insostenibile.

Il documentarista, autore dei due bellissimi film di finzione “Schastye moe” e “Anime nella nebbia”, non dà giudizi, non commenta, lascia allo spettatore decidere, lascia alle suggestioni e alle paure delle voci, dei volti e delle atmosfere. Non se ne traggono impressioni positive o incoraggianti, le vicende dei mesi successivi l’hanno confermato. Loznitsa coglie, utilizzando anche spezzoni di riprese di altri operatori, la pancia delle proteste, non i ragionamenti, non le istanze, bensì i sentimenti, anche quelli che non si possono esprimere con le parole e vanno percepiti con questa lunga immersione nelle immagini e nei suoni della piazza. Se ci sono documentari simili a questo sono “Tahir” di Stefano Savona e “The Square” di Jehane Noujaim, entrambi sulle proteste e sul ruolo della piazza Tahir a Il Cairo dalle manifestazioni contro Mubarak a oggi.

Il leviatano

Una denuncia del potere di Putin e dei suoi è il russo “Leviathan” di Andrei Zvyagintsev. Il regista Leone d’oro a Venezia nel 2003 per “Il ritorno”, e già premiato a Cannes con i successivi “Elena” e “Izgnanie”, ha realizzato un affresco dei mali della Russia dentro un dramma artico che si è meritato il premio per la miglior sceneggiatura. Una famiglia va in pezzi sotto la pressione di un sindaco speculatore che gli vuole demolire la casa. Un dramma con momenti di ironia.

Thriller discreto e poco più è “Capitives” del canadese di origine armena Atom Egoyan, anche questo tra le nevi. Una storia di rapimenti di bambini e, anche qui, di denuncia degli intrighi e delle connivenze nella buona società. La grande tensione che Egoyan sa creare, legata anche a interrogativi morali importanti, cede nell’ultima parte sotto il peso di un meccanismo narrativo molto complicato.


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