Milorad Dodik con in mano la bandiera della RS (foto di Stanisic Vladimir/Shutterstock)

Milorad Dodik con in mano la bandiera della RS (foto di Stanisic Vladimir/Shutterstock)

In un momento in cui la Bosnia Erzegovina ha bisogno di soluzioni concrete per uscire da uno stallo che dura da anni, i nazionalisti locali, Milorad Dodik in primis, si concentrano su questioni di poco conto

13/12/2018 -  Ahmed Burić Sarajevo

La vecchia regola secondo cui in Bosnia Erzegovina deve verificarsi una lunga serie di eventi negativi prima che accada qualcosa di positivo sembra funzionare ancora. È in questa ottica che potrebbe essere letta la recente dichiarazione del segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, il quale ha annunciato che “alla Bosnia Erzegovina verrà offerto il piano d’azione per l’adesione alla Nato, e il paese dovrebbe sfruttare al meglio questa opportunità”.

A dire il vero, l’ingresso nella Nato è una lama a doppio taglio, ma in questo momento sembra che non ci sia nessun altro meccanismo in grado di arginare la recrudescenza del nazionalismo serbo.

La Bosnia Erzegovina è il paese dei paradossi. Il neopresidente della Presidenza tripartita del paese è Milorad Dodik, l’uomo che figura sulla lista nera degli Stati Uniti e che costantemente minaccia la secessione della Republika Srpska.

Politico abile e senza scrupoli, che con la corruzione e una prassi centralista controlla la maggior parte delle correnti politiche nel paese, Dodik ha sollevato l’ennesimo scandalo qualche giorno fa. Nel giorno stesso in cui Jens Stoltenberg ha proposto ai ministri degli Esteri dei paesi membri della Nato l’attivazione del piano d’azione per l’adesione della Bosnia Erzegovina, Milorad Dodik ha abbandonato una seduta del Consiglio per l’implementazione della pace (PIC).

Questo organo, composto da 55 paesi e organizzazioni, è stato istituito sulla base degli Accordi di Dayton, con il compito di sostenere il processo di pacificazione disponendo mezzi finanziari, fornendo truppe alla missione EUFOR e attuando interventi concreti.

Il numero di paesi e soggetti coinvolti nel processo di stabilizzazione dopo la fine del conflitto in Bosnia Erzegovina la dice lunga sulla lentezza e il carattere eccessivamente burocratico della missione internazionale in Bosnia Erzegovina.

Dodik – che in un certo senso è l'erede politico di Radovan Karadžić in tempo di pace – ha abbandonato la riunione del PIC perché nella sala non era esposta la bandiera della Republika Srpska. Secondo la legge, in occasioni di eventi di questo tipo, deve essere esposta solo la bandiera della Bosnia Erzegovina.

“Tenendo conto del fatto che in queste sale sono esposte le bandiere della Bosnia Erzegovina e della Federazione BiH, dovrebbe esservi esposta anche la bandiera della Republika Srpska, approvata dalla Corte costituzionale della Bosnia Erzegovina. Dal momento che tale condizione non è stata soddisfatta, è impossibile per me rimanere qui. Sono venuto per farvi vedere che non ho intenzione di creare problemi. Ora vi saluto. Sono disposto a parlare con voi in qualsiasi luogo. Sarò nell’ufficio accanto”, ha detto Dodik lasciando la riunione.

La scaltrezza usata da Dodik – e il tirar fuori la questione dell’esposizione della bandiera della Republika Srpska nella sede della Presidenza è una delle sue mosse preferite – è il modello di comportamento grazie al quale il nazionalismo serbo si mantiene in vita fin dai primi anni Novanta.

Si tratta di un inganno basato sulla “legittimità” del popolo. Stando alle testimonianze di molti attori internazionali coinvolti nei negoziati di pace sul territorio dell’ex Jugoslavia, i leader politici serbi, e soprattutto Radovan Karadžić, ogni volta che dovevano firmare qualcosa dicevano che bisognava aspettare per vedere cosa ne avrebbe detto il popolo, ovvero il parlamento.

Era un modo per guadagnare tempo: i politici già decidevano in nome del “popolo” e avevano le mani libere per fare qualsiasi cosa. Lo stesso vale per Dodik. Il problema della bandiera, inventato da Dodik (la bandiera della RS è esposta nella sede della Presidenza già da quando c’era il suo predecessore, Mladen Ivanić), e la sua decisione di “rimanere nell’ufficio accanto” in realtà dimostrano la sua ignoranza.

Dodik vuole prendere in giro i suoi interlocutori il più a lungo possibile e dimostrare l’inviolabilità della sua carica, conquistata alle elezioni. Uno degli aspetti più problematici di questo tipo di comportamento, di questa anti-logica, è che il più delle volte contribuisce ad approfondire conflitti, o persino a innescare una nuova guerra, che non gioverebbe a nessuno.

Qualcosa deve essere cambiato e forse lo ha capito anche la Nato. Perché la logica del “passo dopo passo” si è dimostrata fallimentare: oggi la Bosnia Erzegovina è un paese spaccato, guidato da nazionalisti che fingono di litigare, ma che si uniscono non appena si sentono minacciati dalle forze progressiste.

Molto bravi a spendere i prestiti del Fondo monetario internazionale per pagare quelli che hanno assunto nel settore pubblico e per corrompere, i leader dei partiti nazionali governano solo una parte di popolazione, perché con gli anni un grande numero di persone ha lasciato il proprio paese. Invece di occuparsi di problemi fondamentali – disoccupazione, ingente debito pubblico, depressione, insicurezza, aumento della criminalità – , i leader nazionalisti, e Dodik in particolare, insistono sulle “bandiere” come principale problema da risolvere.

Una situazione che sembra destinata a protrarsi chissà per quanto tempo ancora. Tuttavia, un eventuale ingresso della Bosnia Erzegovina nella Nato potrebbe ridurre lo spazio di manovra per la demagogia basata sul tintinnio delle armi. Anche se questo spazio, sia in senso simbolico che materiale, non scomparirà finché ci saranno dei politici che, legittimati dal voto popolare, sventolano le bandiere del nonsenso, ostacolando il progresso e l’integrazione europea della Bosnia Erzegovina.


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