A casa di un anziano coinvolto in una faida nel nord dell'Albania - foto di Andrea Pandini

Nel nord del paese sono frequenti i casi di vendetta di sangue. Uccisioni che avvengono nel nome del Kanun, la legge tradizionale, che però nei fatti non viene rispettata. E si spara anche sulle donne. Marjola Rukaj spiega perché il Kanun, la tradizione e Lek Dukagjini non siano le cause principali del problema, ma il suo sintomo

31/07/2012 -  Marjola Rukaj

Di solito le uccisioni legate alla vendetta nel nord del paese non fanno più notizia in Albania. Le si scorge nella cronaca nera, tra tanti altri misfatti quotidiani. Ma questa volta, insolitamente, quanto accaduto ha commosso gli albanesi e li ha fatti scendere in piazza a centinaia per protestare contro il Kanun, contro la vendetta di sangue.

Questa volta infatti ad essere rimasta vittima della vendetta è una ragazza minorenne, innocente come la maggior parte di chi muore a causa delle norme del Kanun.

Uccidere prima di tutto

Maria aveva 17 anni ed è stata uccisa insieme al nonno di 70, nelle montagne della regione di Scutari. Così la vendetta di sangue ha sbattuto in faccia agli albanesi la realtà sconcertante del Kanun di oggi. Con l’uccisione di Maria è stata violata una delle tante norme salde, che tutti conoscono del Kanun: “La donna è intoccabile“, è addirittura sacra e se un uomo si fa accompagnare da una donna fuori dalle mura della casa, non gli si può sparare addosso, perché è con una donna e alle donne non si spara.

Prima di scrivere queste righe, per delle settimane, ho contattato buona parte dei membri del parlamento albanese, provenienti dalle zone colpite dalla vendetta. Tra risposte infastidite, telefonate interrotte ineducatamente, e mail senza risposta, ho avuto la conferma che in Albania lo sradicamento della vendetta del sangue non è priorità di nessuno. Nessun progetto legge in programma, nessuna misura particolare per disincentivare l’autogiustizia

Patriarcato o qualsiasi sia l’interpretazione che gli si voglia dare, rimane il fatto che le donne nel Kanun sono escluse dalla vendetta. Oggi invece non sembra sia più così. Maria non è tra l’altro la prima ad essere rimasta vittima del Kanun e della ferocia di chi per uccidere finisce per violare esattamente quella legge dell’autogiustizia d’altri tempi che pretende di rispettare fanaticamente.

Questo dimostra indubbiamente che chi oggi si fa così ciecamente vincolare dal Kanun, ha poche idee delle norme che contiene il famoso Codice delle montagne e questo implica che la sopravvivenza del Kanun non sia solo il tramandarsi di una tradizione antica. Si tratta piuttosto dello sconcertante emergere di una giustizia fai da te, primitiva, che ad un certo punto degenera nello schema tribale “uccidere per uccidere, prima che gli altri ti uccidano“. Tutto questo in una logica clanica, in cui l’unica colpa delle vittime, come nel caso della diciassettenne Maria, era di appartenere al clan coinvolto in vendetta con un altro clan. Illogico, anacronistico, un insopportabile schiaffo in faccia allo stato di diritto nel paese delle aquile.

Quello che oggi si spaccia per essere l’eredità del Kanun è in realtà la trasformazione degenerativa di un codice privo di garanzie, privo di un contorno di casi ed eccezioni in cui si vietava di sparare. A dimostrarlo basta osservare il fatto che nella maggior parte delle famiglie colpite dal Kanun siano costretti a rimanere rinchiusi in casa tutti i membri della famiglia, a prescindere dal sesso e dall’età. Tutti gli uomini, le donne adulte, e tutti i bambini, facendo sì che alcuni di questi ultimi nascano in casa e non riescano mai a vedere la luce del sole, destinati a una vita ai margini della società, senza accesso alle scuole, privati assolutamente di una vita normale. Mentre il Kanun, quello raccolto e scritto da Lek Dukagjini intorno al 1400, spiega chiaramente che a essere colpiti dalla vendetta sono solo gli uomini adulti. Le donne e i bambini, no.

Voyerismo civile

La vendetta di sangue è un fenomeno clamoroso, tanto da essere sinonimo dell’Albania all’estero, che ben si concilia con lo stereotipo facile di un paese povero, isolato e ultimo mistero d’Europa. Andare a trovare e fotografare i visi tristi e le condizioni raccapriccianti in cui vivono i reclusi della vendetta di sangue continua ad essere un atto di facile eroismo per giornalisti stranieri di tutte le provenienze. Basta immortalare quegli sguardi, i mobili malconci e descrivere ciò che si vede per colpire il proprio pubblico. E ci si ferma lì.

Il problema è che non si spingono oltre neanche i media albanesi. La vendetta non è l’Albania. Secondo gli ultimi dati resi pubblici dalle autorità, sono circa 200 le famiglie, tra Scutari, Puka e Malesia e Madhe che sono coinvolte nella vendetta del sangue, tra cui 120 vivono rinchiuse in casa da anni. A Tirana invece, e nel resto dell’Albania come all’estero, la vendetta è una cosa esotica, riguarda il nord, isolato e arretrato, che nel miglior dei casi merita quel tipo di compassione dall’alto in basso che si usa in questi casi.

I media di Tirana mandano in onda di tanto in tanto qualche servizio che non apporta nulla di nuovo, fanno commuovere, rattristare per un po’ con pathos e poesia senza trovare dei bersagli per poter dare un input per cambiare la situazione. Solo nelle ultime settimane, dopo la morte di Maria lo scorso giugno, la trasmissione Fiks Fare di Top Channel ha messo sotto i riflettori le autorità locali. Che sono risultate imbarazzate, sorprese ed hanno pronunciato con pigrizia risposte da incompetenti: “I reclusi? La vendetta? Loro hanno i loro problemi che non riguardano noi“.

Lo scorso giugno a Tirana si è poi tenuta una manifestazione contro la vendetta di sangue. Vi hanno partecipato centinaia di cittadini e molti rappresentanti della società civile. E’ sicuramente una novità, che va salutata, e potrebbe esser interpretata come un segnale di maggior maturità e solidarietà civile che finora è mancata. Ma attivarsi sporadicamente, e protestare con slogan generici, non è purtroppo ancora sufficiente per chi sta rinchiuso e rischia la vita per via della vendetta.

Lek Dukagjini è innocente

Mentre cercavo di raccogliere informazioni che andassero oltre ai soliti cliché che girano tra giornalisti e sociologi ho trovato grande disponibilità a raccontare il Kanun, e un enorme disincanto e rassegnazione. “Come si fa a sradicare centinaia di anni di Kanun?“, “Solo Lek Dukagjini (il signore locale che ha raccolto in un codice le norme del Kanun si pensa nel XIV secolo) ha saputo mettere ordine in quella parte dell’Albania“. Altri dispiaciuti e impotenti hanno più volte ripetuto: “E’ la vera piaga dell’Albania oggi“.

Ma tutti concordano sul fatto che la vendetta di sangue è un fenomeno riapparso negli ultimi vent’anni, nelle zone più isolate al nord del paese. Un fenomeno provocato dal vuoto di potere che caratterizza l’Albania post-comunista e soprattutto dal sistema giudiziario estremamente corrotto, lento e non affidabile. Durante il comunismo, il Kanun e la vendetta di sangue erano cadute in disuso, poiché la mano di ferro con cui Tirana ha trattato il nord del paese considerato arretrato e reazionario non aveva lasciato spazio alla giustizia autoorganizzata. Il Kanun, la tradizione e Lek Dukagjini non sono quindi le cause principali del problema, sono solo un suo sintomo.

E’ chiaro che solo un intervento legislativo e l'impegno delle istituzioni potrebbe sradicare la vendetta di sangue una volta per sempre.

Occorre inoltre anche guardarsi un po’ intorno. Diversamente da quanto credono di norma gli albanesi, la vendetta di sangue non è affatto un fenomeno albanese, illirico, pelasgico, gloriosamente autoctono e famigeratamente endemico delle terre albanesi. Come del resto accade anche per molti altri fenomeni in questa parte del mondo. Basta dare un’occhiata al Montenegro, con cui gli albanesi settentrionali condividono cultura, legami storici e spesso la stessa discendenza clanica. O il Kosovo, dove il fenomeno esiste ma non è così preoccupante per merito di una serie di leggi che risalgono alla Jugoslavia del Secondo dopoguerra.

Prima di scrivere queste righe, per settimane, ho contattato buona parte dei membri del parlamento albanese, provenienti dalle zone colpite dalla vendetta. Tra risposte infastidite, telefonate interrotte ineducatamente e mail senza risposta, ho avuto la conferma che in Albania lo sradicamento della vendetta del sangue non è priorità di nessuno. Nessun progetto legge in programma, nessuna misura particolare per disincentivare l’autogiustizia.

Anche dopo l’uccisione di Maria a Tirana le giornate scorrono uguali, con qualche minuto di lacrime di bambini rinchiusi nelle tv nazionali e qualche parola di protesta qua e là, per lavarsi la coscienza e andare avanti nella propria routine di sempre.


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