La vita di Irene si è spezzata 15 anni fa. Pubblichiamo questo racconto nell'anniversario dell'inizio dei bombardamenti NATO su Serbia, Montenegro e Kosovo nel 1999

24/03/2014 -  Fabio Molon

Le unghie di Irena pizzicano veloci le quasi invisibili corde della sua chitarra. Il fumo di legna umida e bottiglie di plastica sale, svogliatamente abbracciato alle note della canzone, verso un cielo antico e stanco. Una vecchia cagna, in un buco di rifiuti, ascolta e guarda morire anche il quinto dei sei cuccioli. Da troppi giorni non mangia e questo parto, lo capisce mentre l’ultimo dei cuccioli le morde le mammelle flosce e vuote, sarà il suo ultimo.

Ed e’ l’ultimo sforzo quello che chiede a se stessa. Striscia fuori dal buco, verso il suono e il calore, a lasciare la sua offerta affamata ai piedi (pena da lei ben conosciuta) di un essere umano. Sente che il suono si interrompe ed insieme sente interrompersi una vita sempre rasente ai muri, vita dai tanti amori subiti e dai pochi pasti conquistati con il cuore in gola. Nell’ombra incerta del suo crepuscolo vede solo una mano avvicinarsi al suo piccolo e l’ultima cosa che può ricordare è un odore che non sa’ di malvagio, delle dita che delicate e lente, accarezzandole il muso, l’accompagnano verso l’ignoto.

Da quattro mesi la conosce ormai, ma non smetterebbe mai di guardarla mentre è accovacciato accanto a lei in ulica Kneza Mihajla (vena di pietra antica della Città Bianca - Beograd) ove scorrono giorni scanditi dai passi di chi non sa bene che sapore avrà il domani. Pizzica le corde della chitarra, Irena, capelli corti che sembrano mossi da lontani colpi di sole. Bellezza fiorita ed ancora presente, apparentemente lontana dagli insulti del tempo, nel viaggio della vita. Due rughe storiche che dai lati del naso scendono ad incontrarne altre piccole che dal labbro inferiore si perdono nel mento.

Un trucco forse troppo pesante, vigilato da sopracciglia ben separate (sempre un po’ stupite ed interrogative), costringe a cercare l’azzurro degli occhi disturbati a volte dai riccioli innaturali che vengono ricacciati per poco da dita sottili, troppo rosse per essere sane. Non un gioiello, non un ciondolo, solo un collo perfetto che esce da una maglietta nera e da una giacca incontrata chissà dove e chissà quando. Fuma spesso delle sigarette piccole e schiacciate (sente tante volte Irena emettere suoni verso altri umani come sigaretta, dinaro e bere), a piccole boccate, trattenendo a lungo il fumo nei polmoni, sbuffandolo poi veloce solamente dalle labbra piene, forse un po’ larghe (belle comunque) in un ovale del viso leggermente tondo.

Era famosa, una volta, Irena. Appariva spesso in televisione e parlava alla gente con una voce un po’ rauca ma ferma, in maniera veloce, guardandola negli occhi, sorridendo spesso. Non piaceva a tutti nel Palazzo, ma piaceva a quei milioni che cercavano nelle sue parole un po’ di verità in quei giorni di guerra. Era uscita da poco da uno dei rifugi dove i bambini imparavano l’odore della paura ed il suono delle bombe, aveva parlato con le loro madri e con i vecchi di mercato nero, della vita fatta di affannosa ricerca di medicine e di suppliche per avere qualche prestito, di negozi chiusi e di gente raccolta (per un piatto di minestra ed un paio di birre o per conservare un posto di lavoro) in qualche piazza o sui ponti affinché gridasse al mondo una fede incrollabile, la volontà di martirio, la certezza di essere nel giusto.

Lei e Miki, il cameraman, arrivarono a cento metri dalla Morte. La videro arrivare dal cielo e colpire il palazzo della televisione, ne sentirono la voce che chiamava i nomi, ne odorarono il tanfo mentre baciava la bocca ed i capelli di chi rispondeva alla Sua chiamata. Percepirono i Suoi occhi osservarli per un momento, poi La videro raccogliere gli ignari Sacrificati dal Potere e portarli via. Portò via anche Rajko e la voglia di vivere e di lottare di sua moglie Irena.

Conta i pochi fogli da 5 dinari che di tanto in tanto le note della sua chitarra riescono a raccogliere da un universo a lei sconosciuto. Le labbra sono strette e lo sguardo fisso sulle sue mani che tremano sempre più ogni volta che ripone la bottiglia si sposta sui cinque cevapcici* che si sono raffreddati nel piatto. Mangia tutto il pane a piccoli pezzi e le guance si infossano nel suo volto. Raccoglie le briciole cadute davanti a lei e finisce la cipolla cruda. Osserva i cevapcici e poi, uno ad uno, li offre al cucciolo che accanto a lei aspetta sicuro.

E’ il suo compleanno oggi o forse l’anniversario di un matrimonio finito, sembra ormai, secoli fa e che vive ora solo nella personale quotidianità delle sue visite alla tomba del marito. E’ stata al cimitero anche oggi a parlare con Rajko. Anche oggi non c’era nessuno o forse si, ma lei non se ne è accorta.

Il cucciolo ha appoggiato il muso sulle sue gambe. E’ quasi ora di tornare alla baracca nella discarica. Si incamminano. Zajedno. Insieme.

 

Belgrado, 8 giugno 2001


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