Agnese De Gennaro* 6 agosto 2019

BalcanicaMente è un percorso promosso da Ipsia del Trentino che ha portato un gruppo di giovani a raccontare la realtà migratoria in Bosnia Erzegovina e Serbia e il lavoro delle Ong attive nei campi profughi locali

Siamo partiti da Trento il 22 aprile e il nostro viaggio lungo la Balkan route, attraversata continuamente dai migranti, è durato solo una settimana ma questa ci è bastata per tornare a casa con sentimenti molto diversi: sconforto, tristezza e soprattutto rabbia.

Purtroppo, per il poco tempo a nostra disposizione, non siamo riusciti a conoscere in modo approfondito la situazione attuale Serba e Bosniaca ma quel poco che ci hanno raccontato i volontari, gli operatori e gli stessi migranti, insieme a ciò che abbiamo potuto vedere, ci ha proprio aperto gli occhi su un’emergenza che non si può certamente ignorare e di cui l’Unione Europea in primis deve farsi carico al più presto.

Accompagnati dai volontari delle associazioni che operano in loco, abbiamo visto dall’esterno il campo di Šid e siamo entrati nei campi di Krnjaca (Serbia), Bogovadja (Serbia) e Bira (Bosnia).

Abbiamo scoperto tre realtà molto diverse tra loro per il contesto in cui sono situate, la capienza e l’organizzazione, accumunate però dalle persone che vi si fermano: tutte ugualmente speranzose di raggiungere l’Europa per un futuro migliore! I migranti di cui parliamo sono continuamente ostacolati durante il loro viaggio: in partenza dalla mancanza di documenti per spostarsi legalmente e, lungo il tragitto, da cavilli burocratici, accordi tra Paesi non rispettati e violenza ingiustificata da parte dei poliziotti di frontiera.

Impossibile non paragonare la loro rotta con la nostra, costituita da un paio di giorni su un comodo pulmino e l’unico “sforzo” di mostrare i documenti ai confini…

Il campo di Bira (nella cittadina di Bihać) ci ha lasciati senza parole: qui circa 1600 persone si trovano a vivere all’interno di una fabbrica dismessa, a dormire in container affollatissimi (gli spazi personali sono divisi da coperte appese tra i letti) in cui la privacy è inesistente, le condizioni igieniche sono davvero pessime (l’aria è diventata irrespirabile per noi che ci siamo rimasti solo una mezz’oretta) e le giornate eterne. Oltre a ciò, quello che forse lascia più colpiti è l’enorme frustrazione che dilaga tra loro: non possono sapere quando e come riusciranno nel loro intento di arrivare in Europa, dove magari hanno la famiglia che li aspetta. Senza dimenticare tutti coloro che, in accampamenti improvvisati, rimangono a dormire fuori dal cancello di Bira: sono lì a meno di un metro ma non hanno diritto nemmeno ad un tetto sopra la testa?

Il paradosso, che forse stupisce maggiormente, è sapere che il tentativo di passare il confine in modo illegale (per l’assenza di altre soluzioni) viene definito “GAME” da queste persone disperate che certamente non si divertono e mettono continuamente a rischio la propria vita. Partono con uno zaino in spalla (carente di attrezzatura adatta per trascorrere notti intere in mezzo ai boschi), senza alcuna sicurezza, a volte con bambini molto piccoli e, in molti casi, guidati da trafficanti che chiedono loro di pagare cifre altissime indebitandosi.

Entrando in un luogo come il campo di Bira si prova sgomento e ci si chiede che fine hanno fatto la dignità di tutte queste persone? I diritti umani? I milioni che l’Unione europea stanzia alle organizzazioni per occuparsi dei migranti? È possibile che non si riesca a garantire di più con tutti i nostri fondi? Come si può nel 2019 trattare migliaia di persone solo come un numero lasciandole in balia del destino?.

 

Agnese De Gennaro* è una delle partecipanti al percorso BalcanicaMente