Una famiglia profuga conosciuta a Vojnic, Bosnia Erzegovina, nel 1998 e assistita dall'associazione "Per un mondo migliore" ha ispirato questo racconto. Il documento è stato raccolto grazie al crowdsourcing "Cercavamo la pace"

18/11/2013 -  Paolo Perlini

Sento le grida, gli strattoni, qualche calcio e uno schiaffo.

Uomini con il volto coperto ci fanno alzare da tavola e ci spingono contro il muro.

"Dove nascondete le armi? Dove sono?" chiede il loro capo.

"Non teniamo armi" risponde mio marito, "siamo gente pacifica".

"Ora lo vedremo!"

Aprono i cassetti, perlustrano gli armadi, squarciano le poltrone, controllano il retro dei quadri.

Vedo il servizio da caffè appartenuto a mia madre sbriciolarsi sul pavimento.

Il gatto fugge terrorizzato mentre il cane rimedia un calcio nello stomaco che lo fa vomitare.

Io e mio marito abbiamo la guancia appoggiata alla ruvida parete, due di loro tengono la pistola vicina alle nostre teste. Le grida si fanno sempre più aspre e minacciose.

"Dove sono le armi? Lo sappiamo che le avete, siete bravi a nasconderle!"

Uno di loro spara verso il cane, lo colpisce di striscio, spara ancora ma Left riesce a fuggire in giardino. L'uomo lo rincorre e sentiamo altri spari.

"Dove sono le armi, spicciatevi a dirlo".

Sento la canna della pistola sempre più vicina alla mia tempia finché si appoggia sulla pelle. E' fredda, gelida, come l'odio che ha indurito il cuore del mio paese.

Prijedor era una città tranquilla, popolata prevalentemente da mussulmani. I serbi erano circa la metà mentre i croati, il mio popolo, un’esigua minoranza. Nessuno avrebbe mai immaginato che in poco tempo ognuno sarebbe diventato il nemico dell'altro.

Dalla contesa per il possesso di un albero si è passati alle minacce, alle percosse, alla cacciata di casa. I croati dovevano abbandonare il paese ed io riflettevo sul mio nome:"Xenija, straniera". Ero veramente una straniera in patria, un'estranea nel paese dove ero nata e dove erano nati i miei genitori. Da molti anni il ristorante ai confini del paese veniva gestito dalla nostra famiglia. "Ristorante Rudnicki", dei minatori, diceva l'insegna. Da noi trovavano ristoro i camionisti che lasciavano riposare i loro bisonti ma si fermavano anche i lavoratori delle miniere, qualche turista oppure dei ciclisti che in primavera amavano affrontare quelle strade immerse nella vegetazione.

Per tutti riservavo le stesse cortesie e lo stesso rispetto. A tutti facevo credito, senza distinzioni.

Mio marito spesso mi rimproverava perché qualcuno se ne andava dicendo che avrebbe pagato ma poi non si faceva più vedere. Quando scoppiò la guerra il ristorante fu chiuso.

Noi avvertivamo sempre di più la paura. Istintivamente, la prima cosa che ognuno faceva appena sveglio era di toccarsi.

"Bene, ci siamo ancora!" dicevamo dopo aver realizzato che tutte le nostre membra erano attaccate al posto giusto e la testa continuava a ragionare.

Eravamo sopravvissuti ad un'altra notte di bombardamenti, un'altra notte di rappresaglie.

Sapevamo però che i serbi, poliziotti ma anche cittadini comuni, passavano in rassegna le case per vedere se c'erano delle armi nascoste. Facevano il possibile per spaventare la popolazione croata ed indurla ad abbandonare le case, abbandonare il paese.

Quella sera li abbiamo sentiti arrivare. Io e mio marito ci siamo seduti al tavolo tenendoci per mano. Avevo lasciato la porta socchiusa ma sono comunque entrati dandole un calcio e scardinandola.

"Il prossimo proiettile ve lo caccio in testa! Dove sono le armi?" chiese quello che aveva appena rincorso il cane.

Dovevo fare qualcosa in fretta e istintivamente mi voltai dicendo:

"Ragazzi, state calmi. Volete che vi prepari qualcosa da mangiare, qualcosa da bere?"

Il loro capo stava controllando l'interno di una stufa a legna e sentite le mie parole si avvicinò.

"Ecco, ci siamo" pensai. Guardai mio marito, sentivo che stava per reagire, per commettere un'imprudenza.

"Tu sei Xenija, quella della trattoria?" chiese il capo.

"Sì, gestivo la trattoria. ".

"Sei stata buona con me. Mi hai regalato le sigarette e più di una volta non mi hai fatto pagare il pranzo quando ero senza soldi".

Mi osservò ancora, poi disse:

"Ragazzi, andiamo. Questa è brava gente, qui non c'è nulla".

Se ne andarono tutti, privi della spavalderia con la quale erano entrati. Il loro capo uscì per ultimo e sussurrò:

"Scusatemi".

Io e mio marito ci abbracciammo e subito dopo comparve Left. Era stato colpito solamente di striscio: il serbo che voleva ammazzarlo era troppo ubriaco per mirare bene.

"Hai visto? Ti lamentavi per i clienti che lasciavo andare senza che avessero pagato. Ci abbiamo rimesso qualche soldo ma abbiamo salvato la vita".

Mio marito sorrise, mi diede un bacio e poi disse:

"Su, facciamo un po' di ordine. I tuoi amici hanno combinato un bel casino".

Da Prijedor, ora governato dai serbi, siamo fuggiti. Nel paese sono rimasti solo loro. Vivo con mio marito a Voijnic, un paese che prima della guerra era esclusivamente serbo ed ora è occupato da noi profughi croati. Abitiamo in una casa appartenuta a dei serbi che ora sono appunto andati a vivere a Prijedor, il paese che, secondo il tribunale dell'Aja, ha fornito il più alto numero di criminali di guerra.

Ma la paura non è passata, temiamo sempre che tornino i vecchi proprietari a riprendere la casa. Nessuno di noi lavora e chissà se qualcuno ha riaperto il ristorante Rudnicki!

Ora ho imparato a coltivare l'orto, allevare qualche gallina, a sopravvivere. Ma ancora una volta mi sento Xenjia, "straniera" nella mia casa.


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