Vakif foto di Paolo Martino

Un armeno, un siriano e un turco giocano a carte nell'unica locanda del paese. I tre animano una sala vuota con battute rituali e col vapore dei loro caffè. Ognuna delle loro vite è sintesi di storie individuali e collettive finite male, dimenticate, come questo luogo, nella provincia turca dell'Hatay al confine con la Siria. La decima puntata del reportage "Dal Caucaso a Beirut"

07/09/2012 -  Paolo Martino
Dal mio diario.  23 novembre

La luce arancione che riverbera sul soffitto satura la stanza, dando agli incubi la forma stilizzata delle ombre che mi circondano. Un lavandino incrostato, sinuoso di forme scadute; il sifone appeso al muro, umido di incuria; un attaccapanni di fòrmica, lucido di usura. La magnificenza di una antica capitale del Medio Oriente implode nello strazio di un insonne albergo per camionisti e faccendieri. Sorgi presto, sole: per spegnere questo riflesso nauseante di luce sulle pareti, per uccidere la solitudine, per dirmi finalmente se il tuo giorno vedrà o non vedrà il mio viaggio proseguire fino in Siria.

Antiochia, una manciata di chilometri a nord del confine turco-siriano. Il fiume Oronte, la lingua d'acqua che origina dalle nevi perenni del Monte Libano, taglia in due una città lussureggiante. Antichi bazar in cui pullula da secoli la stessa euforica voglia di piccoli affari; ristoranti che invadono le strade fino a tarda notte; capitelli e colonne romane integrate nella geometria di un Islam estetizzante. La guerra civile siriana è a mezz'ora di guida, ma sul lungofiume festoso di Antiochia, città strappata da Ankara a Damasco solo settant'anni fa, nessuno sembra farci caso. I camerieri prendono le ordinazioni in arabo, rinnovando il perfetto bilinguismo di questo giovane angolo di Turchia.

Giovedì mattina. Novembre è agli sgoccioli, mentre la rivoluzione siriana ha già compiuto il suo ottavo mese. Per domani le Nazioni Unite hanno annunciato l'ennesimo ultimatum a cui, disatteso, seguiranno le ennesime sanzioni. Come ogni venerdì, alla fine della preghiera più attesa della settimana, i siriani sfileranno in cortei serrati ululanti di rabbia verso la quarantennale autocrazia della dinastia Assad. I centomila armeni che popolano il paese, minoranza tra le minoranze, figli degli orfani del genocidio, guarderanno dalle loro finestre di Aleppo e di Damasco l'impeto di rabbia colmare le strade, nella patria che per cento anni generosamente li ha ospitati.

Tutto è già pronto per attraversare il confine. Nella scheda di memoria della macchina fotografica restano solo le immagini che avrebbe scattato un qualsiasi turista che ha impressi i miei stessi visti sul passaporto: tramonti caucasici, vette innevate, sorrisi di bambini, greggi al pascolo. Le altre, riversate su DVD, sono già arrivate via posta a Istanbul insieme al resto del materiale: appunti, ritagli, disegni, mappe, storie di vita. Ripasso a memoria il percorso dall'Armenia alla frontiera turco-siriana fino alla noia: per ogni tappa invento un argomento, per ogni sosta un aneddoto, per ogni dettaglio una bugia. Perché il mese di viaggio che mi lascio alle spalle, se interrogato, appaia ai doganieri siriani come l'insignificante capriccio di un solitario turista partito fuori stagione.

Non morirò sulla via di Deir az Zor,

né tra l'immondizia dei campi di concentramento.

Morirò sull'uscio di casa, con la pistola in mano.

Franz Werfel, I quaranta giorni di Musa Dagh, 1933

L'Oronte invade il mare con la forza della piena, inondando di fango il fondale del Mediterraneo. Questo litorale, battuto dallo stesso vento che spira su Beirut nei pomeriggi piovosi d'autunno, annuncia l'ultima meta del viaggio prima del confine più insidioso. Tra i monti che incalzano la costiera, ammantati da boschi di pino, un villaggio di qualche decina di anime rinnova da secoli la sua paziente quotidianità. Una manciata di case di contadini e pastori, passata inerme attraverso una storia violenta, raccorda un flusso di memoria che origina dai villaggi armeni della Bekaa, in Libano, e approda alla periferia di Yerevan, in Armenia. E' Vakif, l'ultimo villaggio armeno della Turchia.

Una tabella in alluminio dondola cigolando su esili steli d'acciaio. “Vakifli koyü, Hosgeldiniz”. Benvenuti a Vakif. La strada che si snoda tra le rampe di Musa Dagh, il Monte di Mosè, teatro del più memorabile episodio di resistenza armena contro le truppe ottomane, è battuta da un vento continuo. Vakif, insieme agli altri cinque villaggi della valle, rimane alla storia per la battaglia che tra questi monti vide uno sparuto gruppo di civili armeni opporsi per quaranta giorni ai soldati venuti per deportarli. Fin quando, avvistati al largo da una nave francese, i resistenti ormai allo stremo fuggirono, portando in salvo solo la croce rossa cucita su un telo bianco che li rese visibili dal mare. Era il 1915. Oggi, quella bandiera è nella valle della Bekaa, in Libano, dove i discendenti degli eroi di Musa Dagh la custodiscono in una teca di vetro, insieme all'orgoglio di una valorosa discendenza.

La lenta ascesa a piedi fino a Vakif mi permette di confrontare il terreno con le mappe della battaglia, reperite nel museo di Musa Dagh alla periferia di Yerevan. Frecce rosse indicano le direttrici degli attacchi dell'esercito; frecce nere in senso contrario, pari in numero, segnano le ritirate. Alla fine i morti armeni furono diciotto, i diciotto martiri di Musa Dagh. La storia non ha tenuto traccia di quanti furono i caduti tra le truppe regolari. Quello che si sa è che i profughi trovarono asilo sulle spiagge di Port Said, in Egitto. Gli uomini adulti si arruolarono in un battaglione di volontari che fu impiegato nella campagna di conquista delle province ottomane del Medio Oriente. Nel 1917 fu completata la conquista della Siria, e i profughi di Musa Dagh poterono abbandonare la tendopoli egiziana per tornare sotto l'ombra di questi rigogliosi boschi.

L'inferriata che circonda la chiesa armena di Vakif è chiusa a chiave. Il silenzio è rotto solo dalle folate di un vento salmastro. Un signore, combattuto tra curiosità e indifferenza, si avvicina lento. Finisco di leggere l'iscrizione che racconta il resto della storia. Nel 1939 la Francia ottenne la neutralità di Ankara nella Seconda guerra mondiale cedendo questo territorio alla Turchia. Gli armeni di Musa Dagh abbandonarono nuovamente tutto, stavolta per trasferirsi in Libano. Tutti meno alcuni: un gruppo restò, dando continuità a una presenza umana antichissima, testimoniata da questa piccola chiesa. Il signore intanto ha vinto il timore. Due grandi occhi neri mi guardano da vicino. La mano sale fino alla bocca, in un gesto eloquente. “Coffee?”

Un armeno, un siriano e un turco giocano a carte nell'unica locanda del paese. I tre anziani animano una sala vuota con battute rituali, col vapore dei caffè. Ognuna delle loro vite è sintesi di storie individuali e collettive finite male, dimenticate come questo luogo. L'armeno, discendente dei reduci di Musa Dagh, emigrò per quarant'anni in Germania come milioni di altri turchi, come turco. Il siriano fu costretto a prendere la cittadinanza turca nel '39, quando questa terra cambiò bandiera. Il turco è figlio di commercianti che prima del crollo dell'Impero ottomano vivevano in Grecia, sul mar Egeo, trapiantato qui da politiche di ripopolamento che assegnarono ai turchi rimpatriati le case armene rimaste vuote. Quanta storia attorno a un solo tavolo? Quanta ignorata memoria muore in questi vecchi? Esco dalla locanda e guardo a valle. Il confine è laggiù, a spaccare in due questo panorama limpido. 

Il doganiere siriano si tocca i baffi mentre scuote la testa. Illuminato da un neon lattiginoso, il passaporto giace aperto sul suo tavolo, da ore, tra mucchi di pallottole che due soldati inseriscono pazientemente nei caricatori. “A volte i fax ci impiegano tutta la notte ad arrivare. Fossi in te lascerei stare.” La sala d'aspetto è vuota: dove fino a qualche settimana fa passava un flusso copioso di merci e persone, regna oggi il silenzio. Finalmente un poliziotto porta un foglio dal piano superiore.

Dal mio diario. 25 novembre 

Scrivo per tenermi impegnato, per evitare di incrociare lo sguardo tagliente del giovane ufficiale di turno. Composto, fresco di rasatura, capelli cortissimi. Divisa stirata. Avrà la mia stessa età, ma sembra appartenere a un altro mondo. So che il fax è una farsa, so che a decidere è lui. E che non mi lascerà mai passare. Quella faccia affilata è il volto di un potere che si sente in pericolo, e che ormai riconosce e dialoga solo coi suoi simili.

“Italiano? Mi dispiace, da qui non puoi passare.” L'orologio segna l'una di notte. Ripercorro all'indietro il tratto di cielo che sovrasta la no man's land. Stelle grandi come noci sorvegliano il cammino. Mentre annunciava la fine del mio viaggio, il doganiere non ha neanche smesso di guardare una telenovela turca da un piccolo schermo sbiadito.


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