Bosnia Erzegovina - foto di Daniele Dainelli

Bosnia Erzegovina - foto di Daniele Dainelli

Si avvicina il ventennale dell'inizio dell'assedio di Sarajevo. Proponiamo un commento di Tim Judah, pubblicato su Eastern approaches - The Economist, dove si parte da una riflessione sulle imminenti commemorazioni per i venti anni dallo scoppio della guerra, per riflettere sulla Bosnia di oggi

26/03/2012 -  Tim Judah

Originariamente pubblicato da  Eastern approaches - The Economist il 23 marzo 2012, col titolo "Bosnia past, present and future"

Chiunque si interessi di Bosnia Erzegovina verrà ben presto sottoposto a un diluvio di malinconici “Io c'ero”, storie raccontate da una combriccola di giornalisti che seguirono la guerra e che ora si riuniscono a Sarajevo in commemorazione del 20mo anniversario dell'inizio dell'assedio alla capitale bosniaca.

Io c'ero, ma non ci andrò. Non vado nemmeno ai ritrovi scolastici. Ciò che temo è che, ai lettori e ai telespettatori dei materiali che emergeranno da quell'evento, verranno servite le solite storie rimaneggiate sulla Bosnia raccontate da corrispondenti pieni di nostalgia che non hanno alcuna idea di cosa la Bosnia sia ora.

Ancora piena di problemi, è la risposta. Questa settimana, in Bosnia, la notizia da prima pagina è stata il 19 marzo quella delle "dimissioni irrevocabili" (durate due giorni) da parte di Željko Komšić da tutte le cariche rivestite in seno ai Socialdemocratici.

Il signor Komšić è un politico molto popolare. Nelle elezioni del 2010 ha ottenuto 50.000 voti in più, come candidato presidenziale, del totale dei voti ottenuti per il Parlamento dal suo partito, i socialdemocratici (SDP).

Komšić riassume in sé le complessità della Bosnia d'oggi. L'SDP è il principale partito multietnico del Paese, nonché il partito di maggioranza nel governo della Federazione bosgnacco-croata. Nonostante la maggior parte degli elettori del partito siano bosgnacchi, Komšić è un croato. Ma la maggior parte dei croati non votano per lui, ed è grazie ai voti dei bosgnacchi che è divenuto il membro croato della presidenza tripartita (gli altri due sono un bosgnacco ed un serbo). Capito?

Perché si è dimesso Komšić? Come sottolineato da Eldin Hadžović in Balkan Insight, sembrerebbe che non fosse più disposto ad essere tirato per la giacca da Zlatko Lagumdžija, il leader “autocratico” dell'SDP, divenuto recentemente ministro degli Esteri della Bosnia.

Si è detto che Komšić fosse particolarmente dispiaciuto del sostegno dato da Lagumdžija al tentativo di Vuk Jeremić, ministro degli Esteri della Serbia, di divenire Presidente dell'Assemblea generale dell'Onu. Di solito gli ex jugoslavi si sostengono a vicenda in tali occasioni, ma Jeremić negli ultimi anni è un personaggio che ha portato a molte divisioni.

I dietrologi hanno evidenziato due elementi. In primo luogo che, lo scorso 13 marzo, Lagumdžija ha incontrato il presidente della Serbia (e capo di Jeremić) Boris Tadić, a Belgrado. I due si conoscono da quando erano bambini. In secondo luogo, Jeremić è un rampollo della famiglia bosgnacca Pozderac, i cui membri hanno giocato un ruolo cruciale nella Bosnia comunista quando il padre di Lagumdžija è stato sindaco di Sarajevo.

Questi elementi non sono necessariamente connessi, ma aiutano a spiegare l'ambiente in cui, almeno parte della politica della regione, viene condotta.

Ma la storia non è finita qui. Due giorni dopo essersi dimesso, Komšić ha deciso che, dopotutto, non intendeva più dimettersi. Cos'è successo? Una teoria è che Lagumdžija abbia accettato di non candidarsi più per la presidenza dell'SDP, aprendo la strada in questo modo a Komšić per quella poltrona. Ma il congresso del partito non è previsto prima del 2014. L'intera faccenda è piuttosto misteriosa (se siete a Londra il prossimo 28 marzo potete chiederlo di persona a Lagumdžija, che sarà qui per un dibattito).

Più lineare è invece la storia di Emir Suljagić. Suljagić era un interprete delle Nazioni Unite a Srebrenica durante la guerra e questo lo aiutò a sopravvivere ai massacri del luglio 1995. Il suo libro sugli anni della guerra (che ho recensito qui) è uno dei migliori emersi dal conflitto.

Più recentemente Suljagić è stato il ministro per l'Educazione del cantone di Sarajevo, di gran lunga il più grande tra tutti i cantoni della Federazione, in quota SDP. Quando ha proposto che gli studenti avrebbero dovuto poter optare per un'alternativa all'ora di religione senza per questo rimetterci nella media dei voti, è divenuto oggetto di una campagna di odio. E' arrivata anche una minaccia di morte, sotto forma di un proiettile inviatogli a casa con il messaggio: “Lascia Allah e la sua religione in pace, o la mano del misericordioso ti colpirà”.

Andrea Rossini riassume bene la situazione in un pezzo per Osservatorio Balcani e Caucaso. Sottolinea come tra i più ferventi critici di Suljagić ci sia stato il Reis-ulema Mustafa Cerić, a capo della Comunità islamica della Bosnia:

"A maggio dell'anno scorso, in un discorso particolarmente duro tenuto di fronte a 30.000 fedeli a Blagaj, Cerić si era scagliato contro le proposte del ministro avvisando che i musulmani sarebbero scesi in strada... affermato che “le scuole sono nostre” e condannato “quelli che vogliono fare a Sarajevo quello che è stato fatto a Srebrenica”, cioè il genocidio."

Suljagić è stato ora costretto alle dimissioni. Nel frattempo, all'inizio di questa settimana, Cerić ha ricevuto un premio a Roma per “la promozione del dialogo tra religioni”. Riflettendo sull'anniversario ormai imminente Rossini si chiede cosa significhi la premiazione di Cerić per la Bosnia moderna:

"Dalla fine della guerra ad oggi ci si è interrogati su quanto profonde fossero le ferite lasciate da quel conflitto. La versione privilegiata dai media internazionali è quella secondo cui le cause della guerra erano etniche, non le conseguenze. Venti anni dopo sembra piuttosto vero il contrario. Le dimissioni di Suljagić sono un pessimo segnale della perdurante incapacità della Bosnia di dotarsi di strutture pubbliche con caratteristiche di inclusività, non di divisione, per tutti i (diversi) cittadini di quello Stato. Il premio a Cerić, forse, un segnale della nostra perdurante incapacità di comprendere quanto le dinamiche interne di quel Paese siano importanti per il destino dell'Europa."

Sino alle sue dimissioni Suljagić ha messo a buon frutto l'esperienza fatta durante la guerra. In un suo recente articolo (scritto assieme a Reuf Bajrović) fa un paragone tra Homs in Siria e Srebrenica, e argomenta che l'Occidente dovrebbe armare i ribelli siriani e lanciare una campagna di bombardamenti stile Libia. Ha un'altra lezione ricavata dalla Bosnia:

"La Bosnia dovrebbe rappresentare una lezione: in un contesto molto meno fertile, alcuni elementi bosgnacchi si sono rivolti a ideologie estremiste, il che portò alla formazione di unità militari solo musulmane, con emiri ed imam, in quello che era partito come un esercito secolare e multietnico della Bosnia Erzegovina. Le atrocità commesse durante la guerra da mujaheddin stranieri e locali hanno creato paure radicate e risentimenti che continuano ad essere sfruttate da politici nazionalisti."


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