Mario Sironi, Chiaro di luna, 1915, tempera e china su carta

Mario Sironi, Chiaro di luna, 1915, tempera e china su carta

La mostra in scena a Trieste sulla Prima guerra mondiale, letta attraverso le opere dei maggiori artisti italiani ed europei della prima metà del Novecento, si apre con l'attentato di Sarajevo e si chiude con l'assedio della capitale bosniaca

05/12/2014 -  Adriana Grippiolo

Si è aperta domenica a Trieste, al Magazzeno delle idee, in corso Cavour, 2, la grande mostra "L’Europa in guerra. Tracce del secolo breve". La mostra, curata da Piero Del Giudice, mette in scena e indaga - attraverso 300 opere d’arte dei maggiori artisti italiani ed europei della prima metà del secolo scorso - le cause, le ragioni e le conseguenze della Prima guerra mondiale.

Non solo per efficacia simbolica, la mostra si apre con l’attentato di Sarajevo del 28 giugno 1914 e si chiude con l’assedio di Sarajevo 1992-1996 che fa da cerniera al secolo. In mostra le opere di artisti attivi durante l’assedio della capitale bosniaca (Edo Numankadić, Mehmed Zaimović, Halil Tikveša). In mostra anche una sezione per la Serbia, il primo paese attaccato il 28 luglio 1914 dall’esercito austro-ungarico.

Non esiste nel Novecento italiano, nei suoi primi due ventenni, negli anni coevi la Grande guerra, un’arte legata alla rappresentazione della guerra stessa.

Eppure, la Grande guerra è il centro sconvolgente del secolo, lo sturm che spazza via generazioni di giovani, scardina assetti sociali, induce il crollo di quattro imperi, apre a due grandi rivoluzioni sociali.

Non ci sono qui, nella storia dell’arte italiana, né Dix né Grosz, né Kollwitz né Barlach, né Meidner né Sickert, né Corinth né Beckmann, né Vallotton né Nash, né Sargent né Chagall. Non c’è una pittura o una scultura che si approssimi a quella esperienza europea, che si confronti con i disastri della guerra.

C’è in Italia il futurismo palingenetico, c’è la conversione di alcuni campioni del divisionismo italiano (e la pittura sociale legata al divisionismo) come Nomellini ormai nazional-retorico, più i pittori pompiers, più i simbolisti tardo liberty, c’è il dannunzianesimo e la profezia marinettiana.

Ma sono tutte cose queste che, al di qua della valutazione critica, stanno prima e anche dopo il disastro.

C’è piuttosto, di rilievo, una sorta di sussulto a fronte della realtà della guerra, un ripensamento profondo e un disorientamento. I cavalli dell’intervento sono tutti ‘scossi’. Ripensano i futuristi, ripensano gli accademici, Mario Sironi interventista ripensa, insieme a Carlo Carrà - questi i due talenti autonomi più strutturati costretti alla trincea.

C’è - più che un confronto e una ripulsa della morte collettiva al fronte - lo shock che subiscono, di fronte all’olocausto della trincea, gli artisti d’avanguardia (futuristi) e l’arte del ‘realismo interventista’ (Sironi) o della scomposizione cubista del reale (Carrà) o l’adesione disciplinata di tanti giovani che escono dalle accademie e alla guerra si avviano in nome della patria.

Arcangelo Salavarani, Soldato morente, 1917

Arcangelo Salavarani, Soldato morente, 1917

Per fare una mostra - come L’Europa in guerra. Tracce del secolo breve ordinata al ‘Magazzeno delle idee’ di via Cavour dal 30 novembre e sino al 28 febbraio - che abbia al centro i cosiddetti “pittori-soldato” bisogna partire da qui, da un trauma. Non ci sono tele di consapevole denuncia, non di ribellione al massacro - sia pure nella sua rappresentazione. C’è, intervenuto, il disorientamento e il trauma.

È evidente la lacerazione, il taglio di coltello (di baionetta) che attraversa l’arte di quei decenni, lo shock subìto, la rottura che gli anni della guerra determinano nella coniugazione estetica.

Se si lavora su questo trauma si può ricomporre un quadro complessivo di ‘arte della guerra’. Si può partire da Giulio Aristide Sartorio (la star presente in mostra con 11 tele, da simbolista-dannunziano a presenza pop, ‘Un Andy Warhol al fronte italiano’ il saggio che presenta la sua pittura di guerra) per arrivare a un provinciale come l’emiliano Antonio Ruggero Giorgi nei cui lavori collassano le regole accademiche e i luoghi comuni. Si passa per il modenese Arcangelo Salvarani, per lo scultore di figurazioni per tombe - di genere - come Manfredini che rompe con gli schemi, sino al ben rappresentato pittore della guerra Giuseppe Augusto Levis già abile verista e pittore esotista che qui muove la tela con una materia quasi informale, con accensioni di fuochi, di grovigli di fili spinati, di caduti (tutto su tavole di legno da cassette di munizioni).

Sartorio (che può dipingere, lui, su cavalletto) adotta - rifonda anzi - la ricerca di presa su quella realtà con la fotografia. Mette alla base delle sue tele di guerra la fotografia - e le foto sono inesorabilmente di morti, distese di cadaveri, di fanti devastati nella ritirata di Caporetto, di paesi in totale rovina.

Sironi, già interventista, incupisce la tela in una profezia della fine, ossessionato dalla rivoluzione bolscevica. Il futurista Angelo Rognoni perde ogni audace orizzonte con un lungo ‘parolibere’ nel carcere di celle-lager. Carlo Emilio Gadda introverso-convinto interventista - lo scrittore è presente nella parte letteraria del grande catalogo della mostra -, scrive alla fine del 1916: «Spero che il mio sistema nervoso, viziato congenitamente da una sensitività morbida, sostenga, grazie allo sforzo cosciente dell’animo, l’orrore della guerra, che io credo necessaria e santa. E crederò questo con la ragione anche se pallido e contraffatto e fuori di sé e stremato dall’emozione e incapace di parlare e lurido e angosciato, affamato e assetato e pieno di sonno, ne invocherò la cessazione per debolezza, per stanchezza».

Collassi, rinvenimenti alla realtà e shock, shell-shock, anche, traumi da bombardamento, da battaglia, come sarà per Clemente Rebora.

Giulio Aristide Sartorio. Isola di Fagarè, olio su tela

Giulio Aristide Sartorio. Isola di Fagarè, olio su tela

Gli unici veri oppositori della guerra sono Giuseppe Scalarini con i suoi disegni - di totale originalità - sulle pagine dell’Avanti! (sino all’intervento italiano e alla censura) e il genovese tolstojano Alberto Helios Gagliardo, un fuoriclasse, ma che lavora sulla guerra, a guerra finita, post-factum.

Il modello cui si ispira la mostra al Magazzeno delle idee L’Europa in guerra. Tracce del secolo breve, è molto alto, irraggiungibile. Parliamo qui di quella memorabile mostra che, ordinata da Richard Cork, fu in scena nel 1994 prima all’Altes Museum di Berlin o e poi alla Barbican Art Gallery di Londra. Il titolo era A bitter truth, Un’amara verità. Lì l’arte europea contro la guerra.

Si è dovuti arretrare, indagare sulla fascia del trauma e sulle espressioni d’arte popolare: gli ex-voto, in sostanza e, volendo, le ellissi, le grafie anche apotropaiche, le volute strazianti delle scritture semialfabete delle lettere dei soldati alla famiglia, le scritture tombali, i graffiti di memoria. E le ‘lettere censurate’, lettere che sono esposte in mostra. Lettere riprese dalla notte della Storia nell’Archivio centrale di Stato di Roma. Qui la vera guerra: la fame, i pidocchi, l’uccisione degli ufficiali che ordinano l’attacco pistola alla mano, la falcidia dei soldati lanciati nell’attacco, le resurrezione di fratellanza tra trincee nemiche, gli stupri, le violenze.

Reliquie queste, tracce di alcune generazioni di giovani d’Europa, lanciati in ondate all’attacco e alla morte, e con quell’odore stagnante - per giorni, per sempre - del cognac che li ha inebetiti (le pagine di Lussu in catalogo da Un anno sull’altipiano) (la mirabile incisione di Helios Gagliardo Alcool alle truppe in mostra) e lanciati all’attacco, nella Valle di Giosafat.


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