Ferida Duraković

Ferida Duraković

Finalmente in italiano una selezione dell'opera della poetessa sarajevese Ferida Duraković. Si paga con la vita per i tipi di Il Ponte del sale, nella traduzione di Alice Parmeggiani. Una recensione

26/03/2015 -  Božidar Stanišić

L'opera della poetessa sarajevese Ferida Duraković, tradotta in una ventina di lingue, tra cui di recente anche il bulgaro (“Dolga e nošta“, Panorama, Sofia, traduzione a cura di Hristo Popov), è finalmente disponibile in edizione italiana: una scelta delle sue poesie, intitolata “Si paga con la vita“, tradotte da Alice Parmeggiani e introdotte da una nota a firma dell'autrice stessa (“Scrittura, transizione, impegno“), è stata recentemente pubblicata dall'editore “Il Ponte del sale “ di Rovigo.

Il lungo percorso verso la pubblicazione di questo libro, portato a termine per ”colpa” di alcuni entusiasti, ebbe inizio nel lontano 1993, quando il poeta Emanuele Bettini accettò di dare spazio sulle pagine della rivista cremonese “Si scrive“, oltre che a qualche mia non-poesia, anche ad alcune delle grandi voci della poesia contemporanea bosniaco-erzegovese. In quell'occasione fu pubblicata una scelta, a cura del sottoscritto, delle poesie di Ilija Ladin, Mario Suško, Abdulah Sidran, Slobodan Blagojević e, naturalmente, di Ferida, tradotte da Alice Parmeggiani e precedute da una pagina vuota, inserita nella rivista al posto della consueta prefazione come un piccolo gesto di protesta contro chi in quel momento, nel nome di un intero popolo, bombardava la città di Sarajevo. Un riflesso dell'anima altrettanto vuota di chi dovette assistere (da lontano) alla scomparsa di un intero mondo, il proprio.

Magari non sarà stato né il migliore né il peggiore dei mondi possibili, ma era l'unico che avevamo e nel quale, se ci fosse stata più ragione, avremmo potuto vivere ancora, invece di disperdersi in decine di migliaia ai quattro angoli della terra. Avrei ancora potuto – invece di vivere in Friuli, tra lavoretti di passaggio e notti insonni, invase da un continuo susseguirsi di volti come in un film che non vuole finire – insegnare letteratura in Bosnia, ricordando agli studenti che esiste una certa Ferida Duraković, poetessa, e portandoli in gita, come facevo una volta, a Mostar, Zenica, Tuzla, Banja Luka e, naturalmente, a Sarajevo, la cui vera anima fu svelata da Andrić quando disse: “Questa è la città“. È la stessa città intorno alla quale – come non resistette a commentare un poeta inglese – si agitò l'intera Europa per un colpo di pistola, come si è agitata esattamente un secolo dopo, per quel concerto del 28 giugno, ed è poi subito volata via. Non c'era nemmeno bisogno che l'Europa si scomodasse per l'occasione, quel concerto poteva tranquillamente metterlo in scena a Vienna, Parigi o, perché no, a Berlino. Sì, è la stessa città che in una delle poesie di Ferida diventa un “albero di Natale“.

Tornando all'edizione italiana dei suoi versi, mi appresto a rendere omaggio a tutti i “colpevoli“ che loro malgrado, essendo anime modeste, non se lo aspettano affatto. Comincio da Bruno Cappuccio, avvocato catanese e ottimo conoscitore delle letterature del Sud-est europeo, comprese quelle degli slavi meridionali, il quale mi contattò sei anni fa, curioso di sapere se, oltre a quella inglese, esistesse anche un'edizione italiana dell'opera di Ferida. Dopo aver letto il “materiale“ che gli mandai, l'avvocato mi scrisse una lettera talmente imbevuta di emozioni provate davanti alle poesie di Ferida da risvegliare in me il vecchio desiderio di vederle pubblicate in italiano.

E fu così che tra incontri e corrispondenza con gli editori, spinto dall'ostinazione del mulo (è un complimento che mi faccio da solo), riuscii a persistere nel mio intento.

Nella primavera del 2010, dopo la presentazione del “Lamento per Belgrado“ di Miloš Crnjanski, tenutasi nel vecchio Teatro Ballarin di Lendinara, nella provincia di Rovigo, ebbi l'occasione di parlare con Marco Munaro, responsabile di una piccola casa editrice locale, e decisi semplicemente di avvisarlo che gli avrei mandato, per una prima lettura, le poesie di Ferida fino a quel momento tradotte in italiano. La risposta dal suo “Il Ponte del sale“ arrivò così veloce che nemmeno un coniglio postino avrebbe potuto consegnarla prima: “Ferida va“.

Quel “va“ di Marco, a dire il vero, tradotto in tutte e tre le lingue ufficiali della Bosnia poteva facilmente indurre a pensare che qualcuno si fosse avviato verso la stazione per prendere il treno, e se Dio vuole in direzione del mare. In italiano, invece, la frase è inequivocabile, anche se in quel momento fu accompagnata, oltre che dall'entusiasmo, anche da una certa preoccupazione. “E chi potrebbe tradurre queste poesie?“, mi chiese Marco.

Lo proposi ad Alice Parmeggiani, traduttrice di numerosi romanzi, racconti, saggi e poesie degli jugo-autori degni di attenzione (Andrić, Pekić, Velikić, Albahari...) e la sua risposta fu del tutto laconica: “Ferida, finalmente!“

Quanto alla scelta delle poesie, la “colpa“ è di Ferida. A me veniva mal di testa mentre cercavo di capire come far stare un'opera così vasta in un unico libro: “Ma come faccio a non includere questa poesia, e questa, e questa!“ Quindi, pensai che magari l'autrice stessa avrebbe potuto risolvere al meglio tale dilemma, ed ebbi ragione.

Personalmente ero convinto che le poesie di Ferida, introdotte da una sua nota, non avessero bisogno di altro per diventare un libro. Quanto a me, non scrivo di poesia, almeno non di quella contemporanea, e ormai da molto tempo non ho bisogno di invocare Crnjanski per ricordarmi che “per i poeti, come ben noto, scrivere versi rappresenta un bisogno mentale, quasi fisiologico“, un bisogno che molti, a suo giudizio, trasformano in chiacchiere. E le chiacchiere sono tante, anche oggi a mezzo secolo da questa critica impietosa. Talmente tante da assomigliare ad una discarica delle stesse identiche parole di sempre che va crescendo quotidianamente. (Del resto, quale altro destino dovrebbero aspettarsi le parole consumate?)

Su questo argomento, ritengo valida anche la provocazione di Gombrowicz, espressa nel saggio “Contro i poeti“, ma solo fino alla sua escursione nella negazione di tutta la poesia - passata, presente e futura. Indubbiamente grande, seppur controverso, questo pensatore polacco sosteneva radicalmente che la poesia non è in grado di dare una risposta al dolore, e questo non per un motivo irreale bensì per il fatto di essere consolante, narcisista e grottesca. Mi permetterei di aggiungere “quasi tutta“. Ma non ne parliamo più.

Dunque, quando ho finalmente capito di non poter eludere la richiesta di scrivere una postfazione, ho affrontato il compito ben due volte. Sì, proprio come qualcuno che si appresta a scrivere un curriculum vitae vincente. Ma quella “Ferida“, rappresentata in modo convenzionale e schiacciata entro la cornice accademica, l'ho stracciata entrambe le volte. È tutta colpa di quel verme che vive in ognuno di noi (anche se tutto dipende da quando, come e perché lo facciamo risvegliare). È stato lui a convincermi a scrivere a Ferida una lettera al posto della postfazione.

Una lettera – come sospettavo fin dall'inizio, e solo il diavolo sa perché – che magari avrei potuto indirizzare pure a me stesso. Non nascondo di aver provato una certa soddisfazione di fronte al fatto che le prefazioni/postfazioni accademiche possono, dopotutto, consumarsi. Magari questa mia impresa avrebbe suscitato l'invidia pure di quei due personaggi di Cervates, parroco e barbiere, che distruggendo i romanzi cavallereschi volevano aiutare il cavaliere dal volto triste.

È così che andò la storia del nostro libro, srotolandosi come un filo spezzato. Ma quale sia il suo posto e destino in un mondo in cui ormai quasi tutto sembra essere subordinato al profitto, non chiedetelo a me.

Infine, lascio lo spazio alla verità di Czeslaw Milosz quando descrisse la poesia come “strumento non di malvagi, ma di buoni spiriti“, una metafora viva del legame tra poeta, Storia, male e bene nella quale anche Ferida trovò un punto di appoggio, ispirandovisi quando qualche tempo fa, in un'intervista, pronunciò la propria verità: “C’è in noi troppo poca necessità di comprendere l’Altro. C’è troppo poco di tutto ciò che non sia redditizio. Il ‘Grande mondo’ mente quando afferma che sarà salvato dalla globalizzazione: l’anima del mondo sarà salvata da coloro che aspirano a conoscerla un pezzetto alla volta e a preservarla, attraverso tutte le sventure che ci si presentano in gran numero, e non attraverso il suo valore mercantile in barili di petrolio.”


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