Faruk Šehić

Faruk Šehić, autore de Il mio fiume (Mimesis, 2017)

Il fiume Una, in Bosnia, la guerra, i ricordi personali e la sfida della ricostruzione sociale sono i temi centrali del romanzo Il mio fiume, di Faruk Šehić. Un'intervista all'autore

03/10/2017 -  Aleksandra Ivić

Faruk Šehić, autore del romanzo Il mio fiume (Buybook, Sarajevo, 2011 – Mimesis 2017 ) sarà a Padova il prossimo 6 ottobre, ospite del Festival della letteratura “Fiera delle Parole ”. Un'intervista all'autore sul romanzo che l'ha reso celebre, sul passato e il presente del suo paese, sulla Bosnia Erzegovina e sui suoi prossimi progetti letterari.

Qual è il tuo rapporto con il fiume Una, al quale il libro è dedicato?

La Una è un'entità speciale, è il culto della nostra città, ovviamente non un culto religioso. Gli abitanti di Bosanka Krupa, la mia città, vivono sull’acqua. La convivenza con quest'elemento è ben visibile: i due fiumi [oltre all'Una, la Krušnica, ndr] creano molti bracci e isole fluviali, così la città sembra una piccola, verde Venezia circondata da dolci colline.

L’acqua è indistruttibile perché è un elemento naturale, l’ossigeno e l’idrogeno sono indistruttibili, sono elementi costitutivi dell’universo. L’acqua non si può rompere, perché una delle leggi della termodinamica dice che un fluido non si può comprimere. Se spingi l’acqua da una parte, essa si libera altrove.

Nel mio libro, la Una è vera e reale ma è anche un fiume metaforico, la sostanza di un mondo migliore al quale anelano i protagonisti di questo libro. La Una è tutto quello che la società umana non è: l’ideale irraggiungibile, lo splendore di un mondo lontano e utopico, lo specchio nel quale possiamo vedere una società felice senza guerre e senza morte.

La centralità del fiume fa sembrare questo tuo libro un inno alla natura, in contrapposizione all’orrore della guerra, alla distruzione, alla morte...

Non mi occupo di natura, ma del fallimento della società umana. Mi interessa l’apocalisse che viviamo costantemente. Ne Il mio fiume si riscontra un momento di speranza per il protagonista e per la sua città, mentre nei due libri ai quali sto lavorando adesso - una raccolta di racconti brevi e un romanzo - ci sarà meno speranza e più desiderio di adattamento alla vita nelle città e nelle società distrutte.

In queste condizioni è la natura ad avere la meglio, a trovare il modo di espandersi senza che l’uomo la possa controllare, giacché con ogni nuova guerra l'essere umano regredisce, tecnologicamente e spiritualmente. I miei protagonisti saranno dei sopravvissuti intenti ad erigere un nuovo mondo sulle rovine di quello vecchio. Ma quelli che cercano di erigere sono mondi interiori, ricchi e pieni di fantasia. Non è un lavoro facile.

In Il mio fiume, il protagonista Mustafa - narratore e tuo alter-ego - ripercorre il passato tramite un viaggio onirico cui arriva grazie all'ipnosi. Da dove viene la scelta di ricorrere a questa dimensione extra-materiale?

Molte parti del libro le ho sognate: ho scritto nel sogno, se così si può dire. Il libro è onirico e realistico nello stesso tempo, è stata una mia decisione scriverlo così, sono “seguace” del realismo magico degli scrittori latinoamericani. Amo la letteratura fantasy, la fantascienza, e tutto ciò che è inventato e inusuale. La mia idea iniziale era di scrivere un romanzo sulla natura, fatto esclusivamente di descrizioni del paesaggio, senza esseri umani. Questo ovviamente non è stato possibile. Io, perlomeno non sono stato in grado di scriverlo, dato il peso che nei miei pensieri rivestono temi legati all'attività umana e alla sofferenza che ne deriva. Forse un giorno scriverò un romanzo sulla natura, senza il dolore provocato dall'essere umano.

Ma c'è una figura, nel libro, che non è frutto dell'invenzione: la nonna. È un personaggio del quale è difficile fare a meno sia in senso letterario che a livello personale. Rappresenta quel mondo scomparso al quale sarò sempre legato. Il mio fiume è stato scritto per un motivo ben preciso: ricostruire con le parole il mondo scomparso che ho amato così tanto. La nonna è come il sole attorno al quale ruotano i pianeti, lei gestisce tutto in casa, lei è sia reale che magica.

Sei stato definito poeta-soldato per il peso che la tua esperienza bellica ha nel tuo lavoro di scrittore. La tua scelta di prendere parte a quel conflitto, oggi, sarebbe diversa?

La scelta dipende sempre dal momento. Può dipendere dal caso, ma certamente la mia è legata anche alla giovinezza, all’assenza di esperienza, all’innocente desiderio di vivere un’avventura, di sperimentare il pericolo ecc. In ogni caso, credo di aver fatto qualcosa di coerente con la mia personalità. Sono stato lì nel momento più difficile. Ho preso parte alla guerra. In caso contrario forse avrei pensato tutta la vita di aver preso una decisione sbagliata. Il coraggio è una delle virtù umane che stimo di più.

Il tuo libro affronta temi di cui il pubblico jugoslavo è stato più o meno direttamente testimone o partecipe. Cosa pensi possa veicolare ai lettori occidentali? Qual è il messaggio universale per il lettore, non solo balcanico?

È senz’altro più facile, per il “nostro” pubblico, capire gli eventi bellici descritti nel libro. Io però ho scritto quest'opera con l’intento di renderla universale, affinché chiunque potesse capirla. L’acqua, la città sull’acqua e la storia che succede in quella città sono elementi universali che possono essere capiti ovunque. Non esistono cose obiettive in letteratura, tutto dipende dalle emozioni.

Il messaggio universale è che non esiste un male maggiore della guerra, che anche dopo la guerra si può continuare la vita che si faceva prima, ma per farlo è necessario avere una forza interiore enorme e tanta volontà, considerando che quella vita non sarà mai come prima, perché è stata costruita sulle rovine. Le società, i nuovi piccoli stati nati sulle rovine di quella vecchia società socialista jugoslava che ora ci pare irraggiungibile, in realtà hanno costruito molto poco, quasi nulla. Letteralmente e metaforicamente, stiamo ancora camminando sui luoghi dell’incendio, siamo ancora in uno stato di rovina.

Il mio fiume esce per la prima volta nel 2011, ma l’interesse per questo libro non accenna a diminuire. Quale riscontro hai ricevuto dal pubblico estero?

Il libro finora è stato tradotto in nove lingue e pubblicato in undici paesi, ci sono altre traduzioni in corso e l’anno prossimo uscirà in arabo e finlandese. Ritengo che il libro abbia avuto successo anche fuori dal mio paese: l’edizione polacca, ad esempio, è in finale per il Premio mitteleuropeo “Angelus” dedicato agli scrittori dell’Europa centro-orientale.

C’è speranza per questi giovani che oggi vivono in uno stato post-Dayton, profondamente diviso in molti ambiti, memoria inclusa?

La memoria non sarà mai uguale per tutti, ma i libri e i testi scolastici di storia dovrebbero essere per lo meno simili. La memoria è una cosa profondamente individuale ed è determinata dal mio o dal tuo intreccio di sensi, o dalla nostra forza e volontà di lottare contro qualcosa che nella vita ci si presenta come ostacolo. La memoria è anche soggetta al cambiamento, invecchia insieme a noi.

Infine c’è la speranza per i giovani, ne conosco molti che sono al di sopra di quelle divisioni, benché molti di loro stiano abbandonando questo paese, poiché non hanno la possibilità di crescere in esso come persone normali. La Bosnia Erzegovina è lo stato con la maggiore diaspora, quasi un terzo della popolazione vive altrove. Sarà un potenziale immenso, se inizieranno a tornare nel paese natale. La speranza esiste, ma bisogna annaffiarla regolarmente e averne cura.


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