E' l'ultimo libro uscito in Italia per la casa editrice Nottetempo della scrittrice Dubravka Ugrešić. Una riflessione sull'Europa del Novecento, in particolare quella dell'est. Recensione

20/06/2016 -  Diego Zandel

Dubravka Ugrešić è una delle scrittrici croate più tradotte in Italia. Nel tempo, Garzanti prima, quindi Bompiani ed ora Nottetempo hanno pubblicato i suoi libri più significativi. Eppure è, o meglio sarebbe dire, è stata una delle scrittrici più odiate in patria al tempo della cosiddetta “Guerra patriottica” e del regime di Tuđman, tanto da costringersi a una sorta di auto esilio, scegliendo poi di vivere in Olanda.

Europa in seppia

L’ultimo ad essere pubblicato in Italia da Nottetempo, ed è ben il terzo libro per i tipi di questa bella casa editrice, è una raccolta di articoli e saggi di attualità, piuttosto recenti, dal titolo “Europa in seppia ” (pag,349, €. 18,50, traduzione di Olja Perišić Arsić e Silvia Minetti). Perché in seppia? Perché guarda a quell’Europa del Novecento che non c’è più. O, meglio, c’è, ma è l’Europa di oggi, in particolare quella dell’est, che si volta indietro e scopre un continente invecchiato nei suoi miti, ridotti per lo più a icone consumistiche. L’esempio più significativo per una croata, spesso accusata di jugonostalgia, è quello di Tito, la cui immagine, che un tempo si vedeva esposta in ogni luogo pubblico, si ritrova stampata su calzini-souvenir oppure, con la memoria del fatto che era un bon viveur, in libri di cucina con le ricette dei suoi piatti preferiti. La Ugrešić, proprio con riferimento alla jugonostalgia, critica severamente questo atteggiamento come una resa al capitalismo: “Oggi, cioè” scrive “il capitalismo predatorio postjugoslavo può permettersi di tollerare la presenza sul mercato ideologico di souvenir jugonostalgici. La jugonostalgia non fa altro che rafforzare la propria posizione.”

Può sembrare una critica alla jugonostalgia, ma in realtà il suo è un fastidio per una storia, la storia del paese sotto il quale è nata e cresciuta, ridotta a questi espedienti consumistici che ne riducono l’importanza e allontanano da una vera riflessione su ciò che è stata la Jugoslavia di Tito. Scrive infatti l’autrice che questo tipo di jugonostalgia: “al posto di essere la chiave per un’indagine seria, per una migliore comprensione del socialismo jugoslavo, per una resa dei conti reale e a lungo termine tra il vecchio e il nuovo, al posto di essere il generatore di una memoria produttiva, se non addirittura di un futuro migliore, la jugonostalgia oggi si è trasformata nel suo opposto, in un’efficace strategia di conciliazione e oblio”.

Con ciò, però, secondo me, confermando la tesi di chi sostiene il suo essere jugonostalgica, di una Jugoslavia però vista con altri occhi, quelli di un rimpianto per un paese che non c’è più e che, se non portato alla distruzione, avrebbe potuto essere. Una posizione, la sua, che per altro ben emerge soprattutto nel suo romanzo “Il ministero del dolore”, edito in Italia da Garzanti in cui racconta la storia di una insegnante di serbo-croato autoesiliatasi da Zagabria, come la Ugrešić, che insegna letteratura a giovani ex jugoslavi, ora croati, serbi, bosniaci, montenegrini, figli o parenti di criminali di guerra alla sbarra al tribunale dell’Aia. Con essi nasce un gioco della memoria: cercare di ricordare tutto ciò che era riconducibile alla ex Jugoslavia, compresa la lingua, della quale la protagonista sottolinea l’assurda distinzione tra serbo e croato che conta su una diversità di non più di 50 parole. L’intento, quello di alimentare nei giovani allievi una comune identità jugoslava che cancelli i nazionalismi esacerbati dalla guerra interetnica, che era poi il motivo profondo del romanzo stesso.

Questa visione, che è quella di una donna di cuore comunista, rappresenta un po’ tutta la chiave degli articoli e dei saggi raccolti in “Europa in seppia”, in particolare quando l’autrice, ospite in questo o quel paese europeo soprattutto per convegni e presentazioni, si trova in quelli dell’est, ex comunisti, dove non manca di criticare la volontà dei nuovi governi di cancellare, fin nei nomi, i retaggi nel passato comunista. Gran parte del libro è assorbito da questa discussione e non a caso il libro si apre con il ricordo di quando Dubravka Ugrešić fu invitata all’Oberlin College, nell’Ohio, che aveva organizzato una serie di lezioni sul tema Il ricordo del comunismo: poetica e politica della nostalgia, che è poi il tema di questo libro, scritto con acume e un po’ di acredine.

E’ pur vero che il libro non parla solo di questo, pur ritornandoci spesso, ed è interessante il punto di vista dell’autrice anche su altri aspetti della realtà europea, che lei vive ormai anche come cittadina olandese e viaggiatrice culturale per essere spesso chiamata a festival, rassegne, conferenze, eventi culturali (è stata anche a Torino e Roma, per presentare questo ultimo libro). Il timore però è che l’invito sia rivolto alla dissidente più che alla brava scrittrice che la Ugrešić è, facendole ricoprire un ruolo che ormai dovrebbe scrollarsi di dosso, credo con una profonda riflessione sui passi in avanti compiuti dalla Repubblica di Croazia dai tempi di Tuđman che, perseguitando lei ed altri scrittori critici, mostrava il volto becero di un regime. Magari partendo dalla semplice considerazione che l’attuale Repubblica di Croazia non solo contribuisce economicamente, attraverso il ministero della Cultura, alla traduzione dei suoi libri all’estero, ma anche a qualcuno dei suoi viaggi di lavoro come, ad esempio, l’ultimo nel nostro paese per la presentazione proprio di questo libro a Torino e a Roma.

 


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