Sarajevo - foto di Anna Cavarzan

Come il caso bosniaco sveli contraddizioni tutte europee. Una tesi del master "Corso di perfezionamento in mediazione con l'area balcanico-adriatico-danubiana" M.A.B.A.D

08/01/2013 -  Lucia Bruni

Perché su Sarajevo, la Gerusalemme d'Europa, è caduta la pioggia di fuoco e il veleno dell'odio? Perché questa città e non un'altra? Perché le bombe incendiarie sono piovute sulla impareggiabile ricchezza della Vijećnica?

Il fato avverso di questa città, malinconica ed attraente, peculiare e scostante, continua ad interrogare visitatori e studiosi. I Sarajlije raramente danno soddisfazione al curioso di passaggio, non amano rimescolare nel passato, perlomeno non nel passato recente, lo circondano del silenzio che vela l'esperienza inenarrabile della guerra. Più rumorosamente si buttano nel presente, nel futuro, nella mischia della modernità e nelle sue contraddizioni. Eppure anche le contraddizioni contemporanee a Sarajevo si incontrano con quelle antiche, come tutto sempre si è incontrato nella sua stretta valle; come la pita con la pizza, come il gelato con la baklava, come la raiffeisen con il vakuf. Non c'è un fatto o una protesta sociale che non abbia una radice nell'eredità bellica, non c'è ricchezza o bellezza, e neanche novità, che non abbia ragion d'essere nel passato profondo.

Sarajevo e i Sarajlije preferirebbero essere nominati e cercati per altre ragioni che i trascorsi tragici, vorrebbero fuggire allo stigma. Ma la domanda non allenta la morsa in coloro che la visitano, cos'è successo, come è successo? Come è potuto accadere?

Sorride enigmatico il bosniaco, sorride amaro e laconico. Preferisce ridere di sport e di donne, cantare di personaggi mitici avvolti nella bruma del passato lontano, godersi e condividere la sua cucina ricca e variegata. E se Sarajevo dice e non dice, svela e ri-vela, abbaglia e acceca di buio, molto di più tace e rimugina la Bosnia rurale, molto di più soffre e arranca, fuori anche da quei pochi riflettori puntati sulla capitale. Lontano dalle città, dalla moltitudine che rimescola le sorti, dal flusso di visitatori e turisti che girano almeno qualche manovella economica, i villaggi ancora di più portano la ferita inflitta dalla guerra alle coscienze, alle convivenze, alle narrazioni comuni, alle case e alla terra.

Ci sono parole, milioni di parole, su quel che è successo. Premesse e spiegazioni importanti, ragioni che dovrebbero far sussultare e bruciare le coscienze europee, che interpellano la storia comune del nostro continente. Nodi irrisolti della nostra evoluzione, corto circuiti delle nostre istituzioni e costituzioni, tensioni che serpeggiano da sempre appena sotto la superficie delle nostre società, malattie latenti e trascurate delle nostre culture e civiltà. Studi autorevoli rimettono in ordine, con pazienza e metodo, i fili sconnessi della storia dei Balcani occidentali, inquadrano i fenomeni in una cornice che in parte fa capacitare della delicatissima complessità di questa regione.

Qualche parola, qualche spiegazione, ho voluto darla anche io, con questo piccolo studio sul caso bosniaco. Ma sono stata condotta, da una voce incontrata quasi per caso mentre raccoglievo elementi ed informazioni, a cercare per una volta di dare un piccolo spazio anche all'inafferrabile, a ciò che le parole dello studio non colgono e non coglieranno mai. Tutti i sensi sono stuzzicati a Sarajevo, fa parte della sua furbizia balcanica. Ti assorda con lo sferragliare dei tram, ti fa ballare ai suoi concerti, ti ammalia con la vicinanza e la maestosità delle montagne, ti cattura con l'architettura e con il profumo della rosticceria. Ti riempie di parole ed immagini. Eppure ti resta la strana sensazione che ciò che più ti ha stregato di questa città è ciò che di lei non hai visto, i suoni che non hai sentito, i sapori che non hai assaggiato, i racconti che non hai sentito. Come può essere? Quale voce si sente meglio allontanandosi dalla sua fonte? La voce del silenzio, la voce che non si può registrare e scrivere su pietra. Che niente spiega, e che risulta più vera e più comunicativa delle parole di collera, di allegria o di denuncia. Un silenzio che viene da lontano, che coprendole porta le mille voci perse nella storia e sepolte sulla collina. Ascoltandolo si può avvertire un suono sottile, una musica lontana, la voce di un violino che piangeva sulle macerie di ciò che gli uomini prima costruiscono poi distruggono, che suonava da sempre e per sempre sulla perdita dell'uomo da parte dell'uomo.


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