Il 1° gennaio 2007 ha segnato una data storica per Bulgaria e Romania, ma i dirigenti europei ora non prevedono nuovi allargamenti. Le conseguenze di una indefinita chiusura ai Balcani occidentali potrebbero essere nefaste. L'editoriale del portale nostro partner, Le Courrier des Balkans

11/01/2007 -  Anonymous User

Di Jean-Arnault Dérens, per Le Courrier des Balkans, 7 gennaio 2007 (titolo originale: "«Balkans occidentaux»: la responsabilité de l'Europe")
Traduzione per Osservatorio sui Balcani: Carlo Dall'Asta

Il summit europeo di Salonicco, nel giugno 2003, aveva affermato la «vocazione europea» di tutti i Paesi dei «Balcani occidentali» (vale a dire la Croazia, la Bosnia-Erzegovina, la Serbia, il Kosovo, il Montenegro, la Macedonia e l'Albania) a raggiungere l'UE. Ma senza fissare calendari né tappe. La sola prospettiva immediatamente offerta era la firma di un accordo di associazione e stabilizzazione (SAA) con l'Unione. Da allora, la Croazia e la Macedonia sono arrivate ad ottenere lo status ufficiale di candidati, ma senza alcuna prospettiva di una rapida adesione.

Al contrario, il Consiglio d'Europa del 14 e 15 dicembre scorsi ha rammentato che anche la Croazia - pur presentata come «prima della classe», che sperava in una rapida adesione - dovrà attendere diversi anni prima di sperare di poter beneficiare di un nuovo allargamento.

Eppure quella dell'integrazione europea costituisce ancora l'unica prospettiva che si può opporre alle logiche nazionaliste, sempre potenti nella regione.

Solo l'Europa può salvare la Macedonia

Il caso della Macedonia vale da esempio. Dopo la conclusione degli accordi di pace di Ohrid, questo Paese ha fatto degli importanti progressi. Al di là dei conflitti e delle ordinarie vicissitudini politiche, la comunità macedone ha capito che una vera integrazione sociale e politica degli albanesi era una condizione imperativa per la sopravvivenza dello Stato. Da parte loro gli albanesi, pur senza forse dimenticare completamente il sogno pan-albanese di una unificazione col Kosovo, hanno in maggioranza compreso che lo Stato macedone poteva soddisfare un buon numero delle loro rivendicazioni ed offrire loro un apprezzabile ambito di vita e di sviluppo. Fino al 2001 gli albanesi macedoni non credevano molto alla longevità dello Stato in cui vivevano, né avevano una percezione più alta della sua legittimità.

Ora, lo Stato macedone potrà sopravvivere se proverà la sua legittimità, offrendo a tutti i suoi cittadini - macedoni, albanesi, serbi, rom, turchi e altri ancora - un ambito di vita soddisfacente, il che passa necessariamente per l'integrazione europea di questo Paese. In effetti, perché un albanese di Tetovo o di Kumanovo dovrebbe sentire il minimo attaccamento per il passaporto macedone, quando questo passaporto non gli permette quasi di passare le frontiere del Paese? Lo stesso passaporto acquisirebbe tutt'altro valore se diventasse un "apriti Sesamo" per le porte dell'Europa.

La Macedonia ha ricevuto lo status ufficiale di Paese candidato all'integrazione nel dicembre 2005, aprendo immense speranze, ma da allora non si è andati avanti sotto nessun aspetto, in buona parte a causa dell'inerzia dei dirigenti politici di Skopje, di sinistra come di destra. Eppure, mentre la questione del Kosovo si avvicina inesorabilmente al suo epilogo, la stabilità della Macedonia resta un elemento essenziale per l'insieme della regione. La definizione dello status del Kosovo - o l'assenza di una rapida soluzione della questione - non mancheranno di avere delle ripercussioni, ben difficilmente prevedibili, in Macedonia.

Una Macedonia chiaramente impegnata in una procedura che la debba condurre, nell'arco di qualche anno, ad una piena integrazione europea potrà resistere ai contraccolpi dell'iter del Kosovo, perché tutti gli abitanti della Macedonia - macedoni, albanesi o altri - sapranno bene che il loro interesse comune passa attraverso la sopravvivenza dello Stato macedone. Se la prospettiva europea resta indefinita e lontana, come è purtroppo nella situazione attuale, niente permette di essere sicuri che questa prospettiva contribuirà a proteggere la Macedonia nelle prove che l'attendono.

Aprire una prospettiva politica per la Serbia, la Bosnia, il Montenegro e l'Albania

Il dilemma europeo della Serbia è altrettanto noto. L'Europa difficilmente può accelerare le prospettive di integrazione di questo Paese, perché sembrerebbe di sorvolare sulle condizioni non ottemperate di cooperazione con il Tribunale penale internazionale dell'Aja. Ma chiudendo le porte alla Serbia l'Europa scoraggia le forze democratiche ed europeiste di questo Paese, rafforzando così la correnti nazionaliste, e in particolare il Partito radicale di Vojislav Seselj. Se le forze democratiche dovessero malgrado tutto prevalere alle elezioni del 21 gennaio, come gli ultimi sondaggi lasciano sperare, sarà necessario che l'Europa invii alla Serbia dei segnali forti e incoraggianti. Non solo per «risarcirla» di un'eventuale perdita del Kosovo, ma innanzi tutto per rafforzare la legittimità delle correnti democratiche serbe chiaramente europeiste.

La situazione non è molto diversa in Bosnia-Erzegovina, in Montenegro o in Albania. Dopo le elezioni del primo ottobre 2006, la Bosnia si è ancora una volta ritrovata in una impasse politica. Si è dovuto attendere l'inizio di gennaio per costituire il governo dello Stato centrale, e i nuovi governi della Federazione e dei Cantoni che la compongono sembrano impossibili da formare. Nella Republika Srpska, Milorad Dodik è potente, eppure non può decidersi a fare quel passo in più che in effetti porterebbe verso la secessione dello Stato. Tutte le speranze di riformare il quadro istituzionale emerso dagli accordi di Dayton sembrano affossate, ed il Paese è ancora una volta condannato a un deleterio immobilismo. È molto difficile prevedere un avvicinamento all'Europa da parte della Bosnia, fintanto che quest'ultima possiederà le sue aberranti e irriformabili istituzioni, ma come spingere i dirigenti bosniaci sulla via di reali riforme senza una prospettiva europea concreta e credibile?

Allo stesso modo, perché i dirigenti montenegrini si dovrebbero impegnare davvero e con efficacia a lottare contro la corruzione, il crimine organizzato e il riciclaggio di denaro sporco, perché infine dovrebbero adottare delle disposizioni efficaci di protezione del litorale e dell'ambiente se l'integrazione del loro Paese non ha alcuna possibilità di concretizzarsi prima di dieci o quindici anni? In queste condizioni tanto vale continuare ad approfittare del denaro facile che gli uomini d'affari russi riversano sul Paese... E perché i socialisti e i democratici albanesi dovrebbero smettere di dedicarsi alla loro attività favorita, che consiste nel dilaniarsi a vicenda, al posto di occuparsi dei problemi reali del Paese, se la prospettiva dell'integrazione europea dell'Albania è altrettanto lontana?

La responsabilità dell'Europa

Nel momento della dissoluzione della Jugoslavia socialista, la Comunità europea dell'epoca ha dato la dimostrazione della sua debolezza politica, essendo incapace di prevedere e di prevenire la crisi, e di darle una risposta politica. Da questo punto di vista l'Europa, che non ha sostenuto i disperati tentativi di riforme dell'ultimo Primo ministro della Repubblica socialista federale di Jugoslavia, il croato Ante Markovic, ha una innegabile parte di responsabilità nelle sanguinose lacerazioni degli anni '90.

Il «grande crimine» dell'Europa è stato probabilmente quello di non aver saputo, allora, dare prova di coraggio e di audacia politica. Si dice, per scusare l'Europa, che essa all'epoca ancora non era che un costrutto economico, privo di un vero e proprio potere politico. L'argomento ora non può più avere valore, anche se l'Unione attraversa una evidente crisi identitaria e strutturale, dopo la bocciatura del progetto di Costituzione europea nella primavera del 2005.

L'Europa si assume già da anni, in sostanza, i costi della ricostruzione dei Balcani. Le sue responsabilità politiche e militari non hanno smesso di crescere, dalla Macedonia alla Bosnia-Erzegovina. Sua è la direzione della missione militare EUFOR in Bosnia, e prossimamente le dovrà essere trasferita l'attuale tutela delle Nazioni Unite in Kosovo.

Mentre gli Stati Uniti hanno ampiamente perso interesse nelle questioni balcaniche, queste nuove responsabilità dell'Europa sono logiche e positive: l'UE non ha la vocazione di assumere un ruolo da leader sul continente? E chi meglio di lei potrebbe accompagnare nella loro evoluzione i Paesi destinati a raggiungere un giorno la cornice comunitaria?

Ciò nonostante, se l'Europa si accontenta di finanziare delle missioni di ricostruzione o di peace-keeping e di gestire le crisi senza apportare un vero e proprio progetto politico, si condanna da sola allo scacco e all'impotenza.

Cosa rappresentano i «Balcani occidentali»? Sei Stati, ben presto forse sette, una ventina di milioni di abitanti... Si smetta di ingannare l'opinione pubblica in Europa! Quali sono state le conseguenze finanziarie per i cittadini dell'Unione dell'integrazione di dieci nuovi membri nel 2004? Nessuna. E si può ancora fare riferimento ai «criteri di Copenhagen», che stabiliscono una serie di obblighi per i Paesi candidati? Va da sé che la Bulgaria e la Romania erano ben lungi dal rispondere integralmente a questi criteri, ma l'Europa ha fatto bene, per delle ragioni politiche, ad integrarli senza ritardi.

Allo stesso modo, bene farebbe a proporre un'integrazione il più rapida possibile all'insieme dei Paesi dei «Balcani occidentali». Gli accordi SAA e tutta la panoplia degli attuali strumenti di preadesione hanno mostrato i loro limiti, se essi non sono impiegati in una chiara e forte prospettiva di rapida integrazione: quale dirigente vorrà intraprendere delle riforme difficili e impopolari, senza l'assicurazione che l'integrazione del suo Paese è una prospettiva certa e vicina?

L'integrazione è la sola prospettiva politica che possa spingere i dirigenti di questi Paesi ad affrontare queste vere riforme, ed è anche la sola prospettiva che possa stornarli dalla pericolosa attrazione di nuovi rigurgiti nazionalisti e di nuovi conflitti.

E dare prova di coraggio politico porterà l'Europa a pagare un conto meno salata. Proporre l'integrazione e l'equivalente di un vero e proprio piano Marshall, un piano di sviluppo ben più ampio del Patto di stabilità del Sud-Est Europa elaborato nel 1999, avrà in effetti un costo molto meno elevato della gestione di interminabili tutele politiche e dell'invio di nuove missioni di pace. Per di più mantenere un'isola di povertà nel cuore stesso del continente europeo, che continuerebbe naturalmente a «esportare» migranti clandestini e criminalità organizzata, non può andare nel senso degli interessi dell'Europa.

L'Unione è ormai sola di fronte alle sue responsabilità nei Balcani, dato che il disimpegno dell'ONU e della NATO sono destinati a procedere sempre più rapidamente. Essa deve assumersi il rischio di affrettare il passo, offrendo al più presto l'integrazione, anziché condannare i Paesi della regione ad un interminabile purgatorio dove non mancheranno di svilupparsi nuovi conflitti, che potrebbero abbattere l'intera costruzione.

L'Europa ha fallito nella sua missione nei Balcani del 1991-1992. Essa rischia ora di perdere la sua stessa ragion d'essere, se non anticipa le prossime crisi che rischiano di incendiare la regione. La questione del Kosovo ci ricorda che non è più il caso di «guadagnare tempo» o di procrastinare la soluzione dei problemi. Bisogna che l'Europa si assuma le sue responsabilità politiche. E subito!


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