Una pagina della rivista Mukavemet

"Noi lo chiamiamo il triangolo delle tre S: sermaye, sendika, siyaset ovvero capitale, sindacato e politica". Un'intervista a Özgür Karaduman attivista politico e direttore editoriale della rivista Mukavemet/Resistenza

12/10/2017 -  Francesco Brusa

Özgür Karaduman è attivista politico e direttore editoriale della rivista Mukavemet (“Resistenza”). La redazione in cui lavora, che è anche un centro culturale e un ufficio di assistenza legale, si trova a Istanbul ma il suo impegno e quello dei suoi collaboratori è rivolto su diversi fronti, spesso nelle zone più povere del paese. Il gruppo di Mukavemet ha ad esempio offerto fin da subito supporto legale e politico ai familiari del “disastro di Soma” (in cui morirono 301 minatori nel maggio del 2014) e si occupa di progetti educativi nel villaggio montuoso di Aladaĝ (dove l’anno scorso si verificò un incendio nel dormitorio femminile, che costò la vita a 12 ragazze). Con Özgür discutiamo delle basi sociali ed economiche del consenso a Erdoĝan, delle grandi migrazioni interne alla Turchia e di come tutto ciò possa essere la base su cui costruire un ipotetico dissenso.

Erdoĝan sta dirigendo il paese in maniera sempre più autoritaria, eppure possiamo dire che l’autoritarismo politico non sia un fenomeno nuovo in Turchia. Qual è allora la specificità di Erdoĝan? Cosa lo rende un leader diverso dagli altri della storia turca?

Io proverei a ribaltare la questione. Molti pensano che Erdoĝan stia cambiando le leggi e le politiche del paese ma io credo invece che siano le mutate condizioni del paese e del mondo intero ad aver cambiato Erdoĝan e le sue politiche. Detto in altri modi, la Turchia, l’Europa e il mondo sono entrati in una nuova fase della loro storia ed Erdoĝan è un perfetto strumento per le esigenze di questa nuova fase, che richiede sempre più autoritarismo e sempre più competizione.

Penso allora che per comprendere le azioni dell’attuale leader turco si debba guardare alla fine della Guerra Fredda. La presenza dell’Unione Sovietica negli equilibri mondiali rappresentava un pericolo per i governi occidentali i quali, anche per scongiurare tale pericolo, hanno fatto grandi concessioni in termini di diritti sociali e lavorativi, sistemi di welfare, etc. Con la scomparsa dell’Unione Sovietica ecco che il neoliberismo ha potuto imporsi come paradigma economico assoluto e il ritmo degli investimenti globali è cresciuto in maniera vertiginosa. Così è cresciuto anche il bisogno di leader che potessero garantire la libera circolazione dei capitali e che potessero rimuovere qualsiasi ostacolo e opposizione al commercio. Erdoĝan in Turchia è stato il più abile e il più pronto a soddisfare questo bisogno.

Un esempio: sta per essere completata la costruzione del terzo aeroporto di Istanbul, che dovrebbe diventare il più grande del mondo. Si tratta di un investimento di sette miliardi di dollari. Prima dell’avvio dei cantieri, è stata intentata una causa per bloccare i lavori da parte della Confederazione degli ingegneri ambientali, incentrata sulle eccessive ricadute ecologiche del progetto (si parla di più di due milioni di alberi abbattuti). Si provi a mettere a confronto queste due cifre: un foglio ufficiale presentato dagli avvocati in tribunale, che sarà costato circa una lira turca, contro sette miliardi di dollari di introiti delle varie aziende coinvolte!

Questo per dire che sarebbe sbagliato pensare che la Turchia attuale risponda al delirio di un “sultano” megalomane. Esistono invece interessi e condizioni che spingono Erdoĝan a compiere determinate scelte politiche.

Lei parla di commercio, di libera circolazione delle merci… in Turchia si verificano anche grandi movimenti di persone, interni e non. Sono fenomeni correlati?

Certamente, e direi anche che sono fenomeni determinanti per i cambiamenti politici. Lasciando da parte il periodo ottomano, in cui gli spostamenti delle persone all’interno del paese erano in massima parte forzati dal governo, il periodo della Repubblica ha conosciuto circa 4-5 grandi fasi di migrazione.

La prima tra queste si è verificata in seguito alla Seconda guerra mondiale, come conseguenza del sostegno americano del Piano Marshall. Gli Stati Uniti chiesero alla Turchia di aumentare le spese per la difesa e di modernizzare l’agricoltura. Perciò, oltre agli aiuti finanziari arrivarono anche trattori e moderne attrezzature agricole. Questo provocò forti squilibri nella vita dei villaggi e molti si videro costretti a emigrare, come sappiamo, soprattutto in Germania che a quell’epoca poteva assorbire manodopera da impiegare nella ricostruzione post-bellica.

Poi negli anni ‘60, sempre come effetto dei cambiamenti rurali e della crescita del capitalismo, un’enorme massa di persone incominciò invece a dirigersi verso i grandi centri: Istanbul, Ankara, Izmir, Adana, Mersin… si crearono vaste baraccopoli che facevano da anello esterno delle città. I contadini giungevano di notte, per evitare i controlli della polizia, e costruivano abusivamente la loro baracca stabilendosi in poche ore. Per questo in turco tali quartieri vengono chiamati “gecekondu” (letteralmente, “messi all’improvviso di notte”). Ora, queste persone si trasferivano sì in città ma erano sostanzialmente escluse dalla vita urbana, in termini di servizi, di diritti etc.

La cosa interessante però è che durante gli anni ‘70 in Turchia, come in altre parti del mondo, si è diffusa a macchia d’olio la contestazione studentesca e sono nati numerosissimi gruppi socialisti rivoluzionari, associazioni e collettivi studenteschi. Fra le azioni di questi gruppi, vi era quella di recarsi nelle baraccopoli e organizzare politicamente i contadini appena trasferiti, difendendoli anche dagli abusi della polizia e del governo che cercavano di demolire le loro abitazioni. Grazie a queste “interazioni” le popolazioni delle baraccopoli si sono riunite in sindacati o in comitati e hanno espresso le loro rivendicazioni, ottenendo servizi e maggiori diritti da parte del governo e, diciamo, “normalizzando” la situazione del quartiere.

Ora questo tipo di organizzazione non esiste più?

Gli anni ‘80 sono stati un periodo di ristrutturazione economica e politica un po’ dappertutto. In Turchia inoltre è avvenuto il colpo di stato militare che ha definitivamente dissolto qualsiasi gruppo di matrice socialista. Infine, come risposta all’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Unione Sovietica, si è sviluppata la dottrina della “Green Belt ” di Carter che, fra le altre cose, ha permesso a vari gruppi di ispirazione islamica di acquisire un maggiore potere nella zona. Tutto ciò si è riflesso nella vita dei gecekondu: dai villaggi le persone hanno continuato a migrare verso le città e il ruolo di protezione che negli anni ‘70 hanno svolto i gruppi studenteschi dal decennio successivo è stato “preso” da associazioni islamiste. Ovviamente pretendendo fedeltà alle autorità religiose locali e spingendo gli abitanti dei quartieri più poveri verso uno stile di vita maggiormente “confessionale”.

Si tratta di processi che in quegli anni hanno interessato in una certa misura tutti i paesi della zona, dall’Iran all’Algeria, dall’Iraq all’Egitto. Ma sbaglieremmo a leggerli in maniera assoluta, poiché nel loro sviluppo ha interferito un’altra importante variabile: il lavoro. Negli anni ‘70 e ‘80 le donne dei quartieri più poveri hanno infatti iniziato a lavorare per le famiglie delle zone ricche, facendo pulizie domestiche. Ci sono foto e filmati di quel periodo che mostrano come queste donne portassero sotto alle loro gonne i vestiti tradizionali del villaggio. Si trattava cioè, almeno nel vestire e nello stile di vita, di una forma culturale ibrida fra quella della città e quella del villaggio. Allo stesso modo, oggi possiamo vedere come molte ragazze portino il velo ma associato ai blue jeans, al trucco, a scollature. Perché? Perché da una parte sono costrette a portare il velo dalla presenza nei loro quartieri dei gruppi islamisti, che garantiscono alle famiglie protezione e servizi, ma dall’altra lavorano in una società capitalista, che invece le spinge verso un differente stile di vita.

Credo che sia tale elemento a distinguere fortemente la società turca dalle società dei paesi del golfo, ad esempio. Negli stati in cui la ricchezza proviene dal petrolio le donne non sono costrette a lavorare e la tradizione islamica può facilmente imporre il burka o forme di controllo domestico. Perciò io credo che oggi sia difficile fare opposizione sul livello puramente politico occorre porre attenzione a tali elementi, bisogna agire in campo sociale ed economico.

In che modo?

Non dimentichiamoci che l’AKP è stato alle sue origini anche e soprattutto un movimento sociale, che si è inserito nelle dinamiche descritte in precedenza fornendo protezione e servizi e assicurandosi così parte della propria base elettorale. Più in generale, se i processi economici rendono le persone sempre più povere è naturale che perdano speranze in questo mondo e inizino a rivolgersi alla religione, che copre innanzitutto un vuoto di senso. Ma esistono delle contraddizioni, dentro le quali è necessario agire.

Tornando alle migrazioni, per esempio, notiamo come siano iniziati altri spostamenti interni alle città stesse. I membri dell’alta borghesia, chi si è arricchito negli ultimi anni, si è prima trasferito in periferia e ora intende ritornare nei quartieri dei gecekondu più centrali. Così il governo sta approntando delle intense opere di rinnovamento e riqualificazione, spingendo gli strati più poveri della popolazione nelle fasce esterne della città. Si tratta sostanzialmente di quello che viene chiamato gentrificazione. A Istanbul avviene nei quartieri di Tarlaba şı e Sulukule, per esempio. Ora, tali dinamiche stanno generando malcontento e rendono evidente ai più poveri, che magari tendono a sostenere l’AKP, l’enorme speculazione che viene portata avanti sulla loro pelle.

Un’altra grande contraddizione è presente a livello di diritti sociali, al lavoro e all’educazione. Il sistema economico si sta strutturando in modo da legare sempre di più i lavoratori al partito: in molti casi per ottenere un impiego sei costretto a prendere la tessera dell’AKP, il che automaticamente ti rende iscritto a un sindacato che in realtà fa gli interessi del governo. E diviene dunque chiaro che il sistema non è costruito per tutelare i diritti o la salute di chi lavora e di chi studia. Prendiamo ad esempio i due “omicidi sociali” di Soma, in cui 301 minatori sono morti per un’esplosione nel maggio 2014, e di Aladaĝ, in cui 12 ragazze hanno perso la vita durante l’incendio di un dormitorio a novembre 2016...

Cosa intende per “omicidi sociali”?

Aladaĝ è un piccolo villaggio sulle montagne del sud-ovest della Turchia, dove i servizi scarseggiano. Da anni il governo sta chiudendo scuole e dormitori pubblici - con la motivazione ufficiale che si tratta di edifici fatiscenti e insicuri - lasciando spazio a istituzioni private di stampo religioso come quella in cui sono morte le 12 ragazze. Tali associazioni operano ai limiti della legalità e, oltre a non garantire norme di sicurezza per i ragazzi ospitati, cercano di impartire un’educazione fondamentalista nell’intento di legare maggiormente la popolazione locale alla propria ideologia. Ricordo che durante l’incendio tutte le porte del dormitorio erano chiuse, in linea con una concezione educativa che tende a separare e segregare la componente femminile da quella maschile.

A Soma esiste un contesto simile, fatto di centri piccoli e molto poveri e dove esiste un meccanismo di affiliazione all’AKP parecchio capillare. Tale meccanismo è inoltre acuito dalle banche che, nel momento in cui una persona trova lavoro, magari come minatore per l’appunto, si offre di coprire varie spese e servizi, dalla casa all’acquisto di una macchina, etc. In realtà si tratta di un modo per indebitare e rendere maggiormente ricattabile il lavoratore. Mukavemet organizza mobilitazioni e manifestazioni con i familiari delle vittime del disastro di Soma, oltre a offrire loro assistenza legale, e vediamo come spesso chi vuole parlare o anche solo partecipare ai nostri eventi viene minacciato sul piano finanziario, gli si dice che la banca ritirerà tutti i prestiti, per esempio. Ma in altri casi si è arrivati anche all’attacco diretto con tentativi di linciaggio.

Ora, episodi come questi sono “omicidi sociali” perché causati non da un “tragico incidente”, come dichiara il governo, o dal “volere di Dio”, come in tanti anche fra i familiari delle vittime ripetono sulla scorta dell’educazione religiosa che gli viene impartita, ma da precisi meccanismi sociali e politici. Si trovano al centro di un particolare triangolo di interessi che noi chiamiamo “triangolo delle tre S”: Sermaye, Sendika, Siyaset ovvero Capitale, Sindacato e Politica.

Se guardiamo ai sondaggi, vediamo come il consenso del governo si sia ridotto in queste zone. Ma ciò non avviene automaticamente, occorre sostegno - materiale innanzitutto - e occorre porsi in ascolto di queste persone, spingendo verso una presa di coscienza. È quello che stiamo cercando di fare a Soma, con manifestazioni e protezione sindacale, e ad Aladaĝ, organizzando campi estivi in cui offriamo un’altra prospettiva di educazione alle famiglie. Per un reale cambiamento politico è necessario innanzitutto un cambiamento culturale e quest’ultimo avviene non a parole o a manifesti ma “toccando”, sentendo, entrando in connessione con la vita quotidiana di chi è oppresso e lavorando assieme a lui per risolvere i problemi da cui è afflitto.

Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto


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