Escursione a Potocari

Escursione a Potocari

Un’associazione nata a Pesaro nel 2009 con l’intento di riprendere il mano il cammino percorso negli anni novanta e far conoscere la Bosnia e i Balcani ai giovani che in quegli anni non erano ancora nati

22/05/2015 -  Giuliano Geri

C’era una volta una guerra fratricida e un paese confinante che si disgregava tragicamente. E c’era una volta un altro paese, il nostro, travolto dalle inchieste giudiziarie e in piena crisi istituzionale, che osservava disorientato e a debita distanza. Il suo apparato diplomatico, dopo un’iniziale ‑ peraltro timida ‑ presa di posizione in favore dell’unità territoriale della Jugoslavia, si allineò all’immobilismo delle potenze europee, in primis Francia e Germania, che nello scacchiere balcanico si giocavano la partita della futura egemonia continentale sulla pelle di decine di migliaia di civili. I media nazionali alternavano le testimonianze dirette e crude dei pochi inviati sul campo alla semplificazione di gran parte dei commentatori, smaniosi di separare con l’accetta della Storia gli aggrediti dagli aggressori, o di sbattere in terza pagina e in seconda serata atti barbarici o eroici.

Nell’inestricabile groviglio jugoslavo e nel «diluvio di sangue-cloroformio», come lo definì lucidamente Paolo Rumiz, venne presto a consolidarsi la tesi prêt-à-porter dello scontro tribale, del fondo di violenza sedimentato nel dna slavo meridionale, dell’odio ancestrale, e di un confine, così maledettamente vicino e al tempo stesso lontano, che era prima di tutto un confine culturale, mentale, addirittura antropologico. Dal fuorviante impasto di superficialità e sensazionalismo, dal moltiplicarsi di storie atroci e abborracciate disquisizioni di psicologia delle masse, pochi furono in grado, in quei primi anni novanta, di cogliere insidiose quanto evidenti trame comuni – il secessionismo come frutto maturo di un sistema politico ed economico basato sulla corruzione, i meccanismi manipolatori di produzione del consenso, la distorsione del concetto di identità, la degenerazione folkloristica del comunitarismo – e pochi evitarono il più classico dei percorsi logici: stupore, ignoranza, assuefazione, indifferenza.

C’era una volta un pezzo di Italia che non si rassegnò né alle formule confezionate ad usum vulgi, né al velleitarismo delle diplomazie, né tanto meno all’inazione davanti al massacro in atto. Furono migliaia i volontari che animarono iniziative di pace, interventi umanitari, reti solidali, progetti di accoglienza. Alcuni di loro persero la vita, chi compiendo gesti simbolici come il deporre una corona di fiori su un ponte di Sarajevo, chi distribuendo aiuti alla popolazione stremata, chi semplicemente cercando di dare notizie al di fuori dei circuiti ufficiali.

Tra le tantissime microstorie di chi, per le ragioni più disparate, si sottrasse a quel percorso logico, ne vogliamo ricordare una. Anno 1993. Il conflitto è nel pieno della sua recrudescenza, la Bosnia Erzegovina è un ininterrotto teatro di guerra, nel Nordest italiano si allestiscono i primi campi profughi, quelli di Slovenia e Croazia sono colmi. Una delle prime iniziative finalizzate a creare una rete di sostegno umanitario si chiama Un sorriso per la Bosnia ed è promossa dalle ACLI. Raccoglie moltissime adesioni e qualche anno più tardi confluirà nell’organizzazione non governativa IPSIA, una delle più attive nei progetti di ricostruzione, cooperazione decentrata, imprenditoria sociale e volontariato.

Un gruppo di amici dell’entroterra pesarese decide di creare un comitato locale e di intervenire nel campo profughi sloveno di Ilirska Bistrica, a metà strada tra Trieste e Fiume. Gli ospiti provengono in massima parte da Kotorsko, una cittadina della Bosnia settentrionale. Sono quasi tutti di nazionalità bosgnacca, in prevalenza donne, ragazzi e bambini costretti a fuggire dalla pulizia etnica compiuta dai serbobosniaci. Nella prima fase ci si concentra sulla raccolta e la distribuzione di beni di prima necessità, poi il compito diventa più delicato. Si tratta infatti di ricostruire un tessuto di relazioni umane che possa mitigare lo choc dello sradicamento, alleviare il peso psicologico dei lutti, delle separazioni, delle sorti ancora oscure toccate ai congiunti. Con ostinazione e inventiva i ragazzi pesaresi organizzano corsi di formazione professionale per le donne, attività ludiche per i bambini e una raccolta fondi destinata a mettere a disposizione borse di studio per il reinserimento scolastico e la frequentazione di università all’estero.

Lutva

Con la fine della guerra e il progressivo smantellamento del campo di Ilirska Bistrica le azioni si concentrano sul territorio bosniaco e sul piano di rientro dei profughi alle località di provenienza previsto dagli accordi di Dayton – uno dei capisaldi del piano di pace, forse il più fallimentare. A Doboj Jug, tra edifici ridotti a macerie e una nuovissima frontiera a vista d’occhio, il comitato cerca di favorire il lento ritorno alla quotidianità con varie iniziative di sostegno alla popolazione e l’allestimento di una colonia estiva per bambini, che sarà gestita e animata dai volontari fino al 2002.

In seguito, con la cessazione ufficiale dell’emergenza umanitaria e delle principali operazioni di stabilizzazione, e il graduale disimpegno delle Ong dalla Bosnia Erzegovina, lo stesso comitato, dopo dodici anni di ininterrotta attività, si scioglie. I giovani volontari nel frattempo sono diventati adulti, hanno messo su famiglia, si sono inseriti nel mondo del lavoro, ma il vincolo d’amore con la Bosnia non si è affatto allentato. I contatti con la vecchia comunità di Ilirska Bistrica rimangono assidui, mentre i destini degli ex profughi hanno imboccato una direzione stabile, quasi sempre lontana dalla terra natale. Si sono costruiti il futuro altrove, trasferiti perlopiù in Slovenia e in Italia, alcuni di loro hanno fatto carriera accademica negli Stati uniti. Tra essi c’è una ragazzina dal viso dolce e gli occhi color nocciola ormai diventata donna. La sua vivacità e tenerezza hanno fatto breccia sin da subito nel cuore dei volontari, che l’hanno eletta spontaneamente a beniamina del gruppo. A differenza di molti coetanei del campo ha deciso di tornare a vivere in Bosnia, a Sanski Most. Lì, una mattina d’inverno, rimane vittima di un mortale incidente stradale. Si chiamava Lutva.

Nel suo ricordo gli ex volontari di Pesaro decidono di riprendere il cammino interrotto e nel 2009 fondano un’associazione che porta il suo nome. "In realtà nessuno di noi era riuscito a prendere distanza emotiva da quella lunga esperienza" dice Claudia Moschini, del consiglio direttivo dell’Associazione Lutva. "È stata una tappa fondamentale nel nostro processo di maturazione, siamo diventati adulti anche grazie alle storie, ai rapporti, al carico di umanità e alle amicizie che essa ha portato con sé. E così, dopo cinque anni, ci siamo ritrovati, ci siamo guardati negli occhi, abbiamo scambiato un paio di idee e ci siamo rimessi in moto, in un clima da reunion di una vecchia rock band. Del gruppo eterogeneo e numeroso di allora eravamo rimasti in pochi, e le motivazioni erano in parte differenti dall’entusiasmo misto a curiosità e forse ingenuità che ci aveva spinto nei primi anni novanta. Rimaneva però la convinzione, come allora, che i Balcani fossero molto più vicini a noi di quanto si sia soliti pensare, e che fosse necessario bucare la coltre di scarsa conoscenza e luoghi comuni che ancora oggi avvolge la percezione dominante di tutto ciò che riguarda i nostri vicini di casa dell’Est".

Le attività

Il nuovo corso si concentra stavolta sul territorio locale, su attività culturali per i più giovani – spettacoli, racconti, letture animate – e su eventi pubblici in tutta la provincia di Pesaro – reading, proiezioni, pièce teatrali, incontri con scrittori e cineasti (tra i più recenti quelli con Paolo Rumiz e Predrag Delibašić) ‑ per raccontare la Bosnia e i Balcani in generale da prospettive inedite e con pluralità di voci, privilegiando lo strumento della testimonianza.

In collaborazione con il Centro psicopedagogico per la Pace e con altre realtà associazionistiche sensibili ai temi dei diritti umani, della cooperazione internazionale e della solidarietà fra i popoli, tra i programmi educativi più importanti promossi da Lutva c’è l’organizzazione di viaggi in Bosnia Erzegovina per le scuole superiori. Il progetto chiamato Popoli. Incontri. Identità offre agli istituti un percorso di conoscenza e di approfondimento della durata di quattro mesi, che si articola in una serie di seminari preparatori, visioni di film e letture guidate, e culmina in un’escursione della durata di cinque giorni seguendo una precisa traccia tematica.

Quest’anno Lutva dedica i consueti due viaggi annuali al ventennale del genocidio di Srebrenica. Il primo di questi si è tenuto nella seconda metà di aprile e ha coinvolto due classi dei licei Nolfi e Apolloni di Fano, trentaquattro ragazzi e ragazze tra i sedici e i diciassette anni, accompagnati da docenti, ex cooperanti e un gruppo di volontari membri dell’associazione. Preceduto da lezioni introduttive di carattere storico e da un confronto con la scrittrice Elvira Mujčić, che all’eccidio ha dedicato un appassionato e sofferto memoir (Al di là del caos, prefazione di P. Matvejević, Infinito, Roma 2007), il viaggio si è tradotto in un vero e proprio itinerario nel passato, presente e futuro di una terra da sempre crogiolo di culture e religioni differenti, un punto di incontro (e scontro) tra Oriente e Occidente. Seguendo il corso sinuoso e le acque smeraldo della Neretva, gli studenti si sono immersi nel passato ottomano, dal caravanserraglio di Počitelj alla Città vecchia di Mostar con il suo cinquecentesco Stari Most, emblema dell’insulsa ferocia distruttrice e recentemente restituito alla sua antica e travagliata bellezza. Lo stesso passato distribuito nella conformazione urbana di Sarajevo, che sulla direttrice est-ovest sembra seguire un ordinato sviluppo cronologico – dal nucleo originario e pulsante della Baščaršija alla monumentalità ottocentesca degli edifici asburgici fino ai popolosi quartieri costruiti in epoca socialista.

Naturalmente gran parte dell’attenzione è stata concentrata sul passato più recente, e più tragico, cui ha fatto da autorevole interprete il generale Jovan Divjak, strenuo difensore della “sua” città, il quale, con la sua istrionica e burbera simpatia, ha saputo creare con i ragazzi un feeling immediato. La Sarajevo dell’assedio, i luoghi simbolo come la Viječnica, i ponti sulla Miljacka, il viale dei Cecchini, la torre di Oslobođenje, il Museo storico a due passi dal fronte di Grbavica e il celebre Tunnel, sono tornati a rivivere nei racconti di uno degli accompagnatori, l’“instancabile” Stanko Radanović, ex combattente tra le file dell’Armija. Quindi la Sarajevo del presente, compendiata dalle tre comunità religiose, i cui luoghi di culto sono situati a poche decine di metri l’uno dall’altro, e incarnata nella tradizionale energia e vitalità che la miseria e la recente gentrificazione non hanno minimamente intaccato.

Srebrenica

Gli incontri con Azra Ibrahimović, responsabile della Casa del Sorriso, e con Hatidža Mehmedović, che ha accolto il gruppo nel Memoriale di Potočari, hanno poi permesso di ricostruire la dinamica del massacro di Srebrenica: gli eventi che lo hanno preceduto, come si è svolto, le ferite insanabili che ha lasciato in eredità ai sopravvissuti. Racconti terribili, storie di crudeltà inaudita, visi segnati dal dolore e tuttavia voci pacate, dignitosa compostezza. Nell’eccidio le due donne hanno perso padri, fratelli, figli: il loro presente si chiama ricerca di giustizia e dovere di testimonianza, ed è raffigurato da una città ancora assediata dagli incubi, da edifici tuttora sventrati o rattoppati alla meglio, da nomi che mancano all’appello, da vittime costrette a incrociare lo sguardo dei carnefici.

Ma il presente sono anche le Madri di Srebrenica, che hanno ospitato affettuosamente nelle loro case gli studenti, donne che tengono viva la memoria e alla memoria hanno dedicato ciò che è rimasto della loro esistenza. E il presente è la cooperativa Insieme , una rete di microeconomia basata sulla coltivazione e la trasformazione di piccoli frutti che coinvolge fattorie familiari del circondario e che dal 2003 offre a donne serbe e musulmane di Bratunac e Srebrenica l’opportunità di lavorare insieme (il progetto è stato presentato l’8 marzo scorso a Montecitorio ). Un presente, quello dei “frutti di pace”, che ci auguriamo contenga germogli di futuro per questa terra martoriata, e però così ricca di fascino e di straordinaria umanità.

"Quello che proponiamo non è la classica gita scolastica" sottolinea Claudia. "Nonostante l’aspetto, diciamo così, istruttivo prevalga su quello ricreativo, e nonostante la complessità dei temi proposti, è sempre sorprendente osservare il livello di attenzione, di curiosità e di coinvolgimento dei ragazzi. Quando finì il conflitto in Bosnia non erano ancora nati, e le guerre jugoslave degli anni novanta non rientrano nei programmi didattici, dunque per molti di loro si tratta di un argomento, e di luoghi, perlopiù sconosciuti. Eppure dai racconti dei testimoni e di noi accompagnatori, e in ciascuna tappa del percorso riescono a trovare punti di contatto con l’attualità, a elaborare in maniera originale il flusso di immagini, notizie e commenti che i media dedicano a quelle aree del mondo che oggi stanno vivendo una situazione simile alla Bosnia vent’anni fa. Guerre solo apparentemente lontane che si accaniscono innanzitutto sulla popolazione civile, ondate di profughi, migranti che sbarcano sulle nostre coste, passività, egoismo o cinismo della comunità internazionale, informazione superficiale, bieche strumentalizzazioni: lo scenario nazionale e internazionale pare quasi identico a quello di allora. Ciò che l’associazione propone loro non è dunque un semplice viaggio nella memoria, ma una serie di strumenti critici e di spunti emotivi per comprendere il presente".

Purtroppo, nonostante il progetto riscuota sempre più adesioni e la lista di attesa sia piuttosto nutrita, da quest’anno Lutva si è vista azzerare i contributi pubblici che la Provincia, il Comune e l’Ambito Territoriale e Sociale di Pesaro hanno garantito sin dalla sua fondazione. "Siamo tutti volontari, ma per mantenere la frequenza e la qualità di questa e di altre iniziative sono indispensabili sovvenzioni, istituzionali e non. Per sopravvivere ci affidiamo alle donazioni private, alle attività di autofinanziamento e da quest’anno contiamo molto sul cinque per mille da destinare all’associazione".

All’ultimo viaggio ha partecipato anche una delegazione del Comune di Fano guidata dal sindaco Massimo Seri. Da segnalare l’incontro con il direttore della Biblioteca Nazionale di Sarajevo Ismet Ovčina e con i suoi collaboratori, che cercano, nonostante le drammatiche difficoltà finanziarie in cui versa l’istituzione, di ricostituire e rendere nuovamente accessibile il patrimonio librario della città, andato in buona parte distrutto o danneggiato nel rogo della Viječnica durante la notte tra il 25 e il 26 agosto del 1992. È stato firmato un protocollo d’intesa per programmi, eventi, mostre comuni e per uno scambio di personale bibliotecario tra Fano e Sarajevo.

"È un accordo molto importante" sottolinea Samuele Mascarin, assessore ai Servizi educativi, alla Pace e alla Memoria, con delega al Sistema bibliotecario della città. "Avrà una ricaduta non solo sul piano culturale, ma anche sul rapporto tra le due comunità. Tra i vari progetti, porteremo nostri concittadini a visitare il laboratorio di restauro dei volumi danneggiati, che è uno dei punti di eccellenza della Biblioteca Nazionale e Universitaria della Bosnia Erzegovina, e forniremo ai bibliotecari sarajevesi assistenza, strumenti e risorse per l’enorme lavoro che stanno realizzando. Siamo grati a Lutva per l’occasione che ci ha concesso e per la straordinaria opera di istruzione e sensibilizzazione che sta portando avanti nel nostro territorio".

 

L’associazione Lutva ha sede a Orciano (PS). Per contatti: associazione.lutva@gmail.com, tel. 3384976117. È possibile devolvere il cinque mille all’Associazione inserendo nell’apposito spazio il CF 90036510411.


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