In Croazia il giorno in cui furono cacciati oltre 200.000 serbi si celebra con una parata militare, in Serbia invece è lutto nazionale. Se il governo di Zagabria tace sulle vittime, a Belgrado non è mai stato confermato ufficialmente il loro numero

04/08/2015 -  Antonela Riha Belgrado

È ormai diventato un rituale, ogni anno negli ultimi due decenni negli stati un tempo in conflitto della ex Jugoslavia si contano le vittime. Ogni rituale oltre al ritmo presuppone anche le sue regole, e nei Balcani è regola contare solo le vittime del proprio popolo mentre quelle altrui non si contano o si trascurano. Così anche questa estate, venti anni dopo il genocidio contro i bosgnacchi di Srebrenica compiuto dalle forze serbe e venti anni dopo la pulizia etnica delle Krajine, dove l’esercito croato ha espulso i serbi, la memoria del crimine diventa parte della retorica politica del potere e delle “elite” ad esso vicine.

La Croazia quest’anno ha deciso che nella festività del Giorno della vittoria e del ringraziamento, con cui si celebrano i 20 anni dell’azione militare “Oluja” (Tempesta), a Zagabria si terrà una parata militare e a Knin le celebrazioni. L’azione dell’esercito croato, il 5 agosto 1995, ebbe come esito la cacciata di oltre 200.000 serbi dal territorio della Krajina di Knin dove, con l’aiuto della Serbia, nel 1991 i serbi avevano dichiarato la loro regione autonoma, rifiutandosi di riconoscere il nuovo stato croato.

In Serbia la parata militare è vissuta come una provocazione e il ministro degli Esteri Ivica Dačić ha fatto sapere che la Serbia osserverà attentamente quali paesi parteciperanno alla parata, affermando inoltre che la loro partecipazione verrà considerata come una presa di posizione antiserba. Il governo serbo ha dichiarato il 5 agosto Lutto nazionale che celebrerà insieme con la Republika Srpska in “ricordo di tutti i serbi cacciati e uccisi”.

Le vittime

In questo ricordare, la Serbia tuttora non ha contato tutte le vittime né esistono dati ufficiali sul numero degli uccisi durante l’operazione Oluja. Sia la parte serba che quella croata parlano di oltre 200.000 persone espulse ma sul numero delle vittime i dati si differenziano sostanzialmente. L’ufficio del Procuratore di stato croato ha pubblicato il numero ufficiale di 217 uccisi, la sezione croata del Comitato di Helsinki riporta 677 vittime civili e l’unico dato che si può trovare in Serbia è quello dell’ong Veritas : 1852 tra vittime e scomparsi dei quali 1078 civili.

Per i crimini commessi durante e subito dopo Oluja in Croazia esiste solo una sentenza della quale in Serbia quasi nessuno ha mai parlato. Questo perché la sentenza di assoluzione presso il Tribunale dell’Aja del 2012, secondo la quale i generali croati Ante Gotovina, Mladen Markač e Ivan Čermak non hanno compiuto associazione di impresa criminale durante l’operazione nella Krajina, a Belgrado è stata interpretata come l’ennesima prova della funzione politica di suddetto tribunale.

In chiave politica sono stati anche i tentativi della Croazia e della Serbia di dimostrare davanti alla Corte di giustizia internazionale dell’Aja che la controparte si era macchiata di genocidio durante la guerra. All’inizio di quest’anno, 3 febbraio 2015, la Corte ha respinto le accuse e sembrava, per un momento, che le reciproche accuse si fossero allentate e che la cooperazione regionale si sarebbe rinforzata.

Memorie di guerra

La celebrazione dell’anniversario di Oluja, vittoria per gli uni e crimine per gli altri, ha riportato a galla le memorie di guerra. Sono in pochi oggi a parlare del vergognoso comportamento del regime di Slobodan Milošević e dei suoi fedeli di allora guidati da Vojislav Šešelj, con i suoi più stretti collaboratori: gli attuali presidente e premier della Serbia Tomislav Nikolić e Aleksandar Vučić.

Le colonne di sfollati di serbi della Krajina per giorni arrivarono in Serbia attraverso il territorio della Bosnia Erzergovina. Viaggiavano con auto, camion e trattori persino su motozappe. Era loro vietato entrare nelle città, la polizia li smistava in centri di accoglienza improvvisati: palestre, fabbriche, hotel, centri di riposo lontani dai centri urbani e sparpagliati per la Serbia. Le colonne di profughi venivano direzionate anche in Kosovo, dove si doveva “restituire” la composizione etnica in un luogo in cui erano in maggioranza gli albanesi.

In assenza dello Stato i cittadini si erano organizzati da soli con gli aiuti. A Belgrado uno dei centri di raccolta di indumenti e cibo era stato allestito nei locali di Radio B92, e sull’autostrada fuori dalla città si potevano vedere gruppi di cittadini con cartoni del latte e sacchetti pieni di pannolini per bambini e vestiti che distribuivano aiuti a caso all’interminabile colonna di mezzi e persone che non sapevano quale fosse la loro destinazione finale. Di tutto ciò sui media statali non c’era alcuna traccia, il destino di decine di migliaia di profughi non era un tema di cui si occupavano i giornalisti e i politici di allora.

Mobilitazione militare

Ancora meno si sapeva della mobilitazione dei profughi. Alla fine di agosto e inizio di settembre 1995 fu avviata la caccia ai serbi di Krajina. I maschi considerati abili al servizio militare venivano arrestati nelle stazioni ferroviarie e degli autobus, nei negozi, nei bar, al mercato, nei centri collettivi, nelle abitazioni dei loro parenti e amici presso i quali avevano trovato una sistemazione dopo la cacciata. Il documento da rifugiato o la carta di identità della Krajina era sufficiente per fare in modo che gli arrestati finissero al fronte in Bosnia o in Croazia nel campo militare della Guardia volontaria serba del più famigerato leader paramilitare serbo Željko Ražnatović Arkan. Esistono testimonianze di come i soldati di Arkan legassero con guinzagli, costringessero a dormire nelle cucce dei cani e persino ad abbaiare i profughi ribelli di Erdut.

Secondo le stime del belgradese Centro per il diritto umanitario quell’estate del 1995 furono mobilitati con la forza circa 10.000 profughi di Bosnia e Croazia. Questa organizzazione non governativa già nel 1997 ha avviato 121 procedimenti giudiziari contro la Repubblica di Serbia a nome delle 721 vittime della mobilitazione forzata. Molti di loro hanno considerato misera e deprecabile l’indennità che con le sentenze hanno ricevuto dallo stato.

Responsabilità

Nemmeno oggi si parla di come si sono ribellati i serbi di Krajina all’inizio degli anni Novanta, dei motivi della loro cacciata e di come sono stati accolti in Serbia. I responsabili del destino di queste persone tutt’ora governano a Belgrado ed è più facile che seguano la parata di Zagabria e che commentino le dichiarazioni dei politici croati piuttosto che riesaminare la propria responsabilità.

Quello che nell’estate del 1995 si sospettava, oggi è ben documentato. Dopo quattro anni di guerra nella ex Jugoslavia sotto la pressione dell’Occidente si preparava la pace. Quell’estate è servita per la “pulizia” dei territori. E così come la comunità internazionale in quei giorni voltava lo sguardo dal massacro che l’esercito di Ratko Mladić commetteva in quattro giorni a Srebrenica, allo stesso modo sono passati in silenzio quei due giorni, quanti appunto sono serviti all’esercito croato per cacciare i serbi di Krajina.

Slobodan Milošević prima di Srebrenica aveva preso le distanze dai serbi di Bosnia, quelli di Croazia non hanno ricevuto aiuto né da lui né dal generale Mladić che aveva iniziato la sua ascesa militare proprio a Knin. I signori della guerra ottennero i loro territori “puliti”: Alija Izetbegović la Federazione BiH, Milošević la Republika Srpska e Franjo Tuđman la Croazia senza serbi.

Venti anni dopo il destino delle vittime, degli uccisi e dei profughi è un tema che all’occasione si tace o si enfatizza. La stagione dei ricordi delle vittorie per gli uni o dei crimini di guerra per gli altri è una buona occasione per i leader odierni per rinforzare le proprie roccaforti nazionali e misurare le forze coi vicini. Tutto fino alla prossima estate quando di nuovo, ognuno a modo suo, si ricorderà di Srebrenica e forse conterà quante persone sono state uccise davvero durante l’operazione Oluja.


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