Ariane Labed

Ariane Labed

Ricoscimenti alla cinematografia targata sud est Europa anche alla recente Mostra del cinema di Venezia. Coppa Volpi di miglior attrice ad Ariane Labed, protagonista del greco “Attenberg” di Athina Rachel Tsangari e il Leone del futuro a “Cogunluk – Majority” di Seren Yüce

24/09/2010 -  Nicola Falcinella Venezia

Il sud est Europa ha tenuto banco anche alla 67° Mostra del cinema di Venezia. Un’edizione molto buona, con un bel numero di film riusciti in tutte le sezioni, segnata dalla personalità del presidente di giuria Quentin Tarantino e dalle polemiche un po’ pretestuose che hanno accompagnato il Leone d’oro a Sofia Coppola (nonché l’assenza di italiani dal palmares).

Il film greco, secondo film della Tsangari dopo “The Slow Business of Going” (2000), è stato molto apprezzato e si è portato a casa un premio importante per l'attrice protagonista Ariane Labed, debuttante al cinema ma con un lungo percorso teatrale.

Una conferma che il cinema ellenico si è rimesso in movimento e che i film interessanti degli ultimi anni non erano casi isolati. Non si parla ancora di capolavori ma c’è un fermento positivo anche nel riuscire a rappresentare la crisi sociale ed economica del paese.

Attenberg - Vai al Trailer

“Attenberg” lo fa attraverso la storia della ventitreenne Marina (Labed), cresciuta quasi in isolamento nella casa del padre architetto, Spyros (Vangelis Mourikis) in una cittadina industriale sulla costa. L’unica sua amicizia è la coetanea Bella (Evangelia Randou, la ballerina solista delle cerimonie olimpiche del 2004). E da qui comincia il film, dalle due ragazze davanti a un muro bianco e Bella che insegna all’altra come si bacia. Un’azione che dà il tono della storia, assurda da una parte nelle sue chiusure e tristezze e dall’altra nei siparietti comici di balletti per la strada.

Marina ha paura del genere umano, discute dei progetti con il padre e passa il tempo a guardare in tv i documentari sugli animali di Richard Attenborough e ad ascoltare le canzoni dei Suicide. Quando incontra l’amica o parlano di sesso o fanno dei balletti per la strada, sempre provando passi diversi. Un giorno uno sconosciuto (interpretato dal regista Giorgos Lanthimos, premiato a Cannes per “Kynodontas”) arriva in città e la sfida a calcetto. Finiranno per avere una relazione che cambia il mondo di Marina. Intanto il padre scopre di avere una malattia allo stato terminale e la figlia deve prima accompagnarlo in ospedale per le cure e poi prepararsi a farlo cremare, una pratica non possibile in Grecia, tanto che deve portare il cadavere in Germania e riportare indietro le ceneri.

“Cogunluk” di Seren Yüce, presentato nelle Giornate degli autori, è stato preferito come miglior opera prima ad altri lavori importanti quali il cinese “The Ditch – La fossa” di Wang Bing, il francese “Angèle et Toni” di Alix Delaporte e “La pecora nera” di Ascanio Celestini. È una variazione sul tema della storia di Romeo e Giulietta collocata nella Istanbul di oggi. Il punto di vista è quello maschile, di un giovane uomo che non riesce a vivere un amore a causa dei vincoli sociali e dell’oppressione paterna. Mertkan (Bartu Küçükçağlayan) è un ventenne timido figlio unico di un imprenditore arrogante. Indeciso sul futuro e in attesa di partire per il servizio militare, incontra in un fast food Gül (Esme Madra), una ragazza curda fuggita dalla famiglia per non doversi sposare con un matrimonio combinato. Tra i due nasce un sentimento di attrazione, ma se lei non nasconde la simpatia reciproca, lui si vergogna della cosa con gli amici che soprannominano la giovane “la zingara”.

La voce della loro relazione giunge presto a Kemal (Settar Tanrioğren), padre di Mertkan, che lo ostacola in tutti i modi, prima minacciandolo, poi impedendogli di usare l’auto (nel frattempo il ragazzo ha avuto un incidente nella notte) e infine mandandolo a lavorare in un’altra città. Intanto Gül è seguita da un amico del mancato sposo che la vuole riportare al suo villaggio nella Turchia orientale. E un giorno la ragazza scompare. Anche qui l’incapacità di liberarsi dai legami di Metkal si manifesta: rientra mesto in famiglia, senza neanche provare a cercare l’amata. Un finale monco solo in apparenza perché è il cedimento di fronte al maschilismo della società (la madre, che pure guardava con favore la relazione, non si pronuncia e cede sempre davanti al marito). E resta solo accennata, ma chiara, anche la condizione di frustrazione del padre, a sua volta insoddisfatto e schiaccato da cose più grandi di lui, a simboleggiare un’oppressione che passa di padre in figlio.

Il regista racconta tutto in modo asciutto, eliminando i raccordi tra le scene, senza spiegare troppo ma lasciando emergere tutti i sentimenti da un piccolo gruppo di attori ben scelti. Yüce, oltre che aver lavorato per alcune serie tv, è stato aiuto regia per Ozer Kiziltan, Yesim Ustaoglu e Fatih Akin (per “Ai confini del paradiso”).  Quest'ultimo era pure presidente della giuria veneziana che ha premiato Yüce.

Nella 25° Settimana della critica, insieme al greco “Hora proelefsis - Terra madre” di Syllas Tzoumerkas, c’era "Oca – Papà" dello sloveno Vlado Skafar. Si tratta dell’esordio nel lungomeraggio del critico che è stato cofondatore della Slovenska Kinoteka e del Kino Otok – Isola Cinema Festival. È il racconto di una giornata tra padre e figlio di 10 anni, che vive con la madre. Camminano nel bosco, pescano, fingono di giocare a calcio senza pallone, si sdraiano per terra, parlano. I due si conoscono poco, il piccolo si è legato molto alla madre ma soffre l’assenza paterna tanto da lasciarsi più volte andare al pianto. Il padre resta sorpreso dalla maturità di certi discorsi del figlio. La sera Miki riaccompagna il piccolo Sandi dal viso d’angelo alla casa materna. E resta fuori al buio a guardare le finestre che si illuminano. Il giorno dopo il padre è in una manifestazione davanti ai cancelli di una fabbrica in crisi a Murska Sobota, cittadina ai confini con l’Ungheria.

L’autorevolezza e l’originalità del lavoro sono dichiarati fin dall’inizio: le prime scene sono senza sonoro, poi i suoni modificati (a volte esasperati, altri attutiti), i dialoghi spesso fuori campo, le poche musiche variano da Beethoven a Nat King Cole. Il tono del breve film (poco più di un’ora) è rimarcato da episodi in apparenza slegati come il giardiniere al tavolino del bar che racconta di come dia agli alberi i nomi dei papi e dei personaggi di Tolstoj. Ne esce un’opera leggera e profonda che resta dentro gli occhi dello spettatore e ha poco a che fare con il cinema che circola oggi nelle sale e nei festival.


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