Gaziantep - A.Lazzaroni

Gaziantep - A.Lazzaroni

Da Gaziantep al passaggio di frontiera tra Turchia e Siria di Öncüpınar: il nostro Andrea Lazzaroni racconta sprazzi di vita dal sud-est della Turchia, dove l'ampia comunità siriana arrivata con la guerra civile resta sospesa tra prudenza e voglia di tornare a casa

11/06/2025 -  Andrea Lazzaroni Gaziantep

Gaziantep

Si sente frequentemente parlare arabo in città, d'altronde vivono circa mezzo milione di siriani a Gaziantep, tra le città turche solo Istanbul ospita una comunità più numerosa. Gaziantep è stata una delle mete di approdo naturali per i siriani in fuga dalla guerra civile.

Aleppo si trova a poco più di un centinaio di chilometri di distanza, e proprio dall'omonimo governatorato provengono circa 2/3 dei siriani che hanno trovato rifugio in Turchia. Gaziantep si è distinta anche come capitale politica dell'attivismo siriano in esilio: qui hanno infatti sede parecchie organizzazioni non governative.

Gran parte dei siriani è finita per trovare occupazione nei laboratori tessili della città o nei campi di pistacchi e olive della provincia, spesso in condizioni abitative precarie e vittime di sfruttamento da parte di padroncini locali.

In una delle vie che spuntano sotto al castello, scorgo una vecchia macchina da caffè Brasilia all'interno di un negozietto stracolmo di merce. Batto un po' la fiacca dopo i molti chilometri percorsi, c'è bisogno di un caffè.

Due uomini gestiscono la bottega alternandosi al bancone, mentre una bambina seduta su uno sgabello di legno è impegnata a intrecciare un braccialetto colorato. Etichette dei prodotti in lingua araba, palline di labneh (formaggio a base di yogurt) sott'olio, zaatar (miscela di spezie), limoni essiccati: non c'è alcun dubbio che si tratti di siriani.

Il più corpulento dei due mi prepara un espresso. Ne approfitto per chiedergli che cosa ne pensa della fine del regime e quali sono i suoi futuri piani. "Stiamo preparando il ritorno, ma prima devo sistemare alcune faccende" mi dice.

"Qui non ce la passiamo così male, ma ormai è tempo di fare una scelta". Mi rivolgo alla bambina e le domando se è contenta di andare in Siria. Abbozza un sorriso e risponde affermativamente, ma non pare troppo convinta.

Per qualche motivo mi rattristo, la Siria è per lei un paese straniero che esiste solo nei discorsi a tavola dei suoi genitori, non c'è mai stata, non l'ha mai visto. Sarebbe forse più prudente concludere la scuola dell'obbligo in Turchia e provare ad ottenere la cittadinanza. Naturalmente tengo per me questo pensiero e la saluto dandole il cinque.

Dopo una veloce doccia in hotel mi dirigo verso la stazione degli autobus. Il dolmuş (taxi collettivo) per Kilis impiega un bel po' a riempirsi, sono costretto ad attendere più del previsto. Due ragazze vengono fatte sedere davanti in parte all'autista, gli uomini dietro.

Non si parla molto, solo uno dei passeggeri è impegnato a spiegare qualcosa al telefono a chissà chi. Tutt'intorno qualche villaggio e molta campagna. In poco meno di un'ora sono arrivato.

Kilis 

Con il 28,9% della popolazione Kilis è la provincia che in percentuale accoglie il maggior numero di siriani. Kilis è una tipica cittadina di confine, dove da sempre turchi, curdi e arabi si mescolano e coesistono, tra alti e bassi. Non ha molto da offrire, ma c'è un bel viavai di gente e si mangia bene.

Dopo aver visitato la moschea centrale mi metto a passeggiare per le stradine del centro fino a quando m'imbatto in un ampio portone in pietra, sormontato da una grata in ferro battuto. Decido di entrare. All'interno c'è una giovane ragazza alla quale mi presento, si chiama Nazlı. Lavora come operatrice sociale in quello che si rivela un centro d'aggregazione giovanile, ricavato negli spazi di un edificio che in passato ospitava una fabbrica di sapone.

Nazlı mi mostra la sala espositiva, un'aula dedicata ai corsi di musica e mi conduce poi al piano superiore, un ampio sottotetto in legno con computer e tavoli da studio. Dei giovani ridacchiano tra di loro. Ritorniamo al piano di sotto e mi offre un tè.

Vorrebbe che parlassi con il direttore ma non ce n'è bisogno, preferisco avere il suo punto di vista sulle relazioni interpersonali tra giovani del luogo e rifugiati. "Il nostro è un modello positivo di integrazione, non ho notato particolari problemi di convivenza" mi spiega con orgoglio. "Non solo turchi e siriani, ma anche rifugiati di altre nazionalità frequentano questo centro, un'oasi di speranza in una provincia che offre pochi spazi di ricreazione alternativi."

Certo non è tutto rose e fiori. I mesi che hanno preceduto le elezioni municipali del 2024 sono stati complicati. Così come è avvenuto a livello nazionale anche a Kilis la campagna elettorale si è giocata sulla pelle dei siriani.

Una battaglia culturale combattuta intorno alle numerose insegne dei negozi in lingua araba presenti in città, il simbolo di una presunta perdita dell'identità turca secondo una certa narrazione sciovinistica.

Dopo un decennio di dominio incontrastato dell'AKP (Partito della Giustizia e dello Sviluppo) il CHP (Partito Popolare Repubblicano) ha prevalso a sorpresa. Una volta insediatasi la nuova giunta ha proceduto alla rimozione di alcune insegne, multando i commercianti inadempienti. Ora le tensioni si sono spente e si è tornati alla vita di tutti i giorni.

Öncüpınar 

"Volontario, sicuro, onorevole, regolato", così nel linguaggio burocratico il direttorato turco della migrazione definisce il processo di rimpatrio dei siriani a protezione temporanea intenzionati a rientrare nel proprio paese di origine in via definitiva.

Coloro che lo desiderano devono inizialmente informare la questura locale ed indicare il valico di frontiera dal quale lasceranno la Turchia. A quel punto le autorità turche acquisiscono le impronte digitali e consegnano un modulo da compilare e presentare in seguito al confine.

Nel giorno indicato viene poi verificata l'esistenza di debiti verso lo stato o privati, oltre a un controllo della fedina penale. Se tutto è in ordine si ottiene un codice, V-87, che sancisce la definitiva perdita dello status di rifugiato temporaneo.

È mattina presto e di siriani al valico di frontiera di Öncüpınar non se ne vede l'ombra. I camionisti dei tir in attesa sonnecchiano placidi, due poliziotti chiacchierano nell'auto di pattuglia con i finestrini abbassati. Mi avvicino e chiedo loro conto della situazione.

"Ne arrivano circa un migliaio al giorno" mi confida uno. Il governo e l'opinione pubblica forse si aspettavano numeri diversi, ma "con l'arrivo dell'estate ci si attende un incremento dei passaggi" aggiunge l'altro fiducioso.

Dopo un po' di attesa arrivano dei furgoncini, carichi di persone. In quattro e quattr'otto valigie e sacchi di iuta vengono scaricati. C'è sempre un po' di caos e qualche alterco, ma il tutto si svolge senza intoppi, al netto delle grida dei numerosi bambini, chiaramente stressati dal trambusto.

Noto una donna anziana con un tatuaggio sul viso, si chiamano deq da queste parti. L'impressione è che siano di bassa estrazione sociale, curdi di nazionalità siriana con tutta probabilità.

I tassisti fanno la spola più volte al giorno da Kilis e sembrano felici del rinnovato movimento. L'insperata fine della guerra civile siriana si è rivelata una benedizione per le cittadine di frontiera turche, l'economia torna a respirare dopo più di un decennio di chiusura.

A pochi metri dal confine incontro Ali Reza, un siriano che lavora come infermiere in un campo profughi vicino a Azaz. Ali Reza ogni mattina attraversa il confine e rientra in serata. Gli chiedo se ha voglia di rispondere a qualche domanda e si presta volentieri.

È qui dal 2012, non se la cava male con il turco, mentre con la Turchia il rapporto è di amore e odio, non ama sentirsi uno straniero e ha vissuto episodi di discriminazione. "Non sarei mai voluto venire in Turchia, ma non avevo alternativa, il mio villaggio è stato completamente raso al suolo nel 2012".

Comprensibilmente è ancora scosso quando ci ripensa, la guerra civile si è arrestata, restano i traumi e le ferite. "Non so ancora se tornare o no" conclude con amarezza. Lo stesso dilemma di milioni di siriani della diaspora, sulla nostalgia per ora prevale la prudenza.


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