Distribuzione aiuti (foto di Dimitri Bettoni)

Distribuzione aiuti (foto di Dimitri Bettoni)

Akçakale, Suruç, villaggi e campi profughi al confine siriano. Ultime tappe del viaggio nella Turchia dei rifugiati. Terza ed ultima parte del reportage

30/07/2015 -  Dimitri Bettoni Suruç

Oltre le recinzioni e i cancelli, nella direzione in cui i mezzi corazzati dell'esercito turco puntano lo sguardo vigile, comincia la Siria. Il primo villaggio è Tal Abyad, sorge proprio sul confine ed è stato di recente al centro dell'attenzione mediatica mondiale: le forze curde YPG, la cui bandiera gialla con stella rossa sventola ben visibile a breve distanza, hanno scacciato le milizie dell'IS, sottraendo così un importante punto di approvvigionamento per lo stato Islamico.

In viaggio con Halaf

“Non mi piace molto” mi confida Halaf guardando la bandiera; è nativo di Akçakale, ultimo villaggio in territorio turco, e lavora per l'ONG turca Support to Life (StL). Il mio sguardo interrogativo lo spinge a spiegarsi: “Non è che simpatizzi per l'IS, ma il territorio qui è abitato principalmente da famiglie arabe osservanti e quella bandiera mi sembra voglia dire 'Ora ci siamo noi'. È inutile nascondere la verità: questa è una zona molto religiosa, molte famiglie qui non avevano grossi problemi a vivere sotto il governo dell'IS, la loro vita non veniva stravolta dalla presenza dei miliziani.” Intuisco come l'argomento sia in realtà molto più complesso, quella di Halaf è soltanto una delle molte voci che compongono il mosaico, e mi riprometto di riprenderlo con lui più tardi. Al tempo stesso, comprendo come il tessuto etnico locale giochi un ruolo fondamentale nelle dinamiche di guerra e, di conseguenza, sulla situazione dei rifugiati.

Adesso il valico è quasi deserto, ad eccezione di una trentina di persone che attendono di tornare in Siria. “Probabilmente hanno avuto notizia che nella loro zona le violenze si sono placate e ora sperano di poter tornare alle loro case” continua Halaf. Aspetteranno finché la Turchia deciderà di aprire di nuovo la frontiera, ma non esistono né orari né procedure: potrebbe accadere tra un'ora, questa sera, o non accadere affatto per giorni. Il fatto che ora ci siano i curdi dall'altra parte non semplifica affatto le cose, considerata la diffidenza (se non l'aperta ostilità) di Ankara nei loro confronti. Eppure soltanto pochi giorni prima, in migliaia hanno aperto uno squarcio nelle recinzioni per sfuggire ai violenti combattimenti di Tal Abyad.

“I flussi aumentano e diminuiscono secondo l'andamento degli scontri, ma anche in base a chi sottrae a chi una determinata area. Ogni volta che una milizia armata vittoriosa si insedia, lo fa con l'appoggio di una o più famiglie, che aiuteranno poi nella gestione e nel controllo del territorio”. Halaf mi ricorda che qui la famiglia non è semplicemente il nucleo familiare ristretto, genitori e figli, quanto piuttosto un intrico di parentele e fedeltà che può arrivare a coinvolgere centinaia o migliaia di individui.

“Di conseguenza, quando la zona è conquistata da una nuova forza, questa cerca di sostituire le famiglie al comando, mentre quelle che in precedenza dominavano sono costrette ad allontanarsi per non subire la repressione dei nuovi vincitori. Prima c'era l'FSI (l'Esercito di Liberazione Siriano, che per primo ha cominciato la rivolta contro Assad), poi è arrivato l'IS, ora i curdi. Ogni volta assistiamo a nuovi arrivi di rifugiati.” Naturalmente non tutti fuggono da vecchi legami e complicità, la maggior parte fugge, semplicemente e drammaticamente, per aver salva la vita.

Sulla strada di ritorno verso Şanlıurfa, il maggior centro della zona, sulla sinistra della carreggiata incontriamo un accampamento di fortuna in un brullo spiazzo di terra battuta in mezzo a caseggiati in costruzione, le tende erette con tele cerate e tappeti, a ridosso di muri o veicoli. Ci fermiamo per scambiare quattro parole e scattare qualche foto, ma quasi immediatamente un uomo esce da un piccolo edificio lì a fianco e ci invita ad andarcene; è un impiegato del comune, incaricato di sorvegliare la zona. Halaf gli fa notare che non ci sono servizi igienici e chiede se sia possibile provvedere. “Non so, devi sentire in comune, per le autorizzazioni”.

Campi profughi

Il campo di Akçakale (foto di Dimitri Bettoni)

Il campo di Akçakale (foto di Dimitri Bettoni)

Riprendiamo il viaggio e a meno di due chilometri, sul lato opposto della strada, sorge il campo governativo di Akçakale, uno dei più grandi di tutta la Turchia. In una selva di linee elettriche e di tende che biancheggiano sotto il sole opprimente, sono ospitati circa 50mila rifugiati, tutti di etnia arabo-siriana. L'ingresso è vietato, nemmeno ONG come Support to Life o Medici Senza Frontiere sono autorizzate ad operare al suo interno, anche se qua e là scorgo il logo dell'UNHCR. Halaf preferisce non accostare nemmeno con l'auto, per non rischiare di venir fermati ed avere problemi con la sicurezza. E se noi non possiamo entrare, i rifugiati non possono uscire, per nessun motivo: la sensazione di prigionia è intensa anche al solo primo sguardo.

Più ad ovest invece c'è il villaggio di Suruç [recentemente teatro di un terribile attentato attribuito allo Stato Islamico, N.d.R] , a maggioranza curda e governato dall'HDP, partito che ha riscosso un atteso successo alle ultime elezioni nazionali. In questo villaggio sorge un secondo campo, con circa 40mila curdi provenienti da Kobani. Mi spiega però Halaf che “ora è quasi vuoto, perché in molti sono rientrati in città, alle loro case. Anche StL per il momento non ha progetti attivi laggiù, poi domani chissà, con la velocità con cui qui cambiano le cose.”

Un campo per i gli arabi, un campo per i curdi, le divisioni che si consolidano anche nella disperata situazione, o forse anche proprio a causa di questa.

Tra i progetti attivi di StL, invece, c'è la distribuzione di aiuti nei villaggi sparsi lungo il confine. Partiamo di prima mattina, punto di ritrovo ad Akçakale, dove Halaf ha concordato con alcuni siriani il reclutamento di una decina di connazionali per aiutare nella distribuzione. “Quando possibile, preferiamo assumere siriani”, mi dice Halaf, “è un altro modo per aiutarli, far arrivare loro qualche soldo”.

La disoccupazione, la perdita di un lavoro che oggi sembra appartenere ad un'altra vita, è certamente uno dei problemi dei rifugiati, specialmente per coloro da cui dipendono interi nuclei familiari, e il lavoro nero è un fenomeno che si diffonde facilmente in questi contesti di emergenza.

“Qui la gente è fortemente nazionalista, lo si è visto anche nelle recenti elezioni; guarda come su ogni casa sventoli la bandiera della Turchia”. Eppure gli abitanti di etnia turca sono una minoranza. La maggior parte delle famiglie è araba, ma il processo di assimilazione e omologazione culturale avviato con la fondazione della Repubblica ha qui ottenuto i massimi risultati, tanto che è diffuso tra gli arabi locali un sentimento di disprezzo verso i siriani in quanto non-turchi.

Questo non impedisce il reclutamento di manodopera per il lavoro nell'edilizia e, soprattutto, nell'agricoltura locale. “Si parla di 10 lire (poco più di 3€) per 10 ore di lavoro o più al giorno, una vera miseria. Noi riusciamo a pagarli 40 lire (circa 14€). Non è molto, ma certamente più di quanto guadagnerebbero altrove e per un lavoro non certo meno massacrante”.

Distribuzione degli aiuti

Nei giorni precedenti, le famiglie nei villaggi sono state avvertite del nostro arrivo via sms: oggi verranno distribuiti utensili da cucina, oltre a cocomeri e meloni. L'autista, che arriva da Hatay, vorrebbe semplicemente scaricare e ripartire, tornarsene a casa, le temperature sono torride ed è periodo di Ramadan, che in molti osservano: significa lavorare tutto il giorno sotto il sole cocente senza cibo né acqua. Serve un po' di polso da parte dei responsabili per ricordargli che gli accordi sono diversi e bisogna distribuire nei villaggi.

Non appena il camion e le auto attraversano i polverosi villaggi di confine, dove vecchie case di fango, paglia e sterco sorgono accanto a quelle nuove in cemento armato, le famiglie di rifugiati sono rapide ad assieparsi attorno ai mezzi quando si fermano nei punti di raccolta previsti.

Sono più numerose di quelle stimate, perché anche questa settimana ci sono stati nuovi arrivi, ma non essendo mai state registrate da StL, non ci sono aiuti per loro sul camion. Non è affatto facile far accettare che no, oggi non riceveranno nulla, dovranno attendere qualche giorno, la prossima distribuzione. I partecipanti alla spedizione, anche loro siriani, devono ricorrere a tutti i trucchi della diplomazia per evitare che la situazione possa degenerare.

Mi ritornano in mente le parole di Rezan a Diyarbakır, quando insisteva sull'importanza di avere operatori di origine siriana e perciò in grado di gestire i rapporti con le famiglie. Si cercano di registrare nominativi e componenti, gli animi vengono calmati distribuendo qualche melone extra, che i bambini sollevano sulla testa come fossero trofei.

Riesco a scambiare qualche parola con un giovane del villaggio, figlio del muhtar (capo) locale, arrivato per assistere alla distribuzione: “Abbiamo accolto queste famiglie, dato loro alcune delle case disabitate e, quando possibile, diamo loro del cibo; in cambio lavorano nei campi del villaggio”.

Anziano (foto di Dimitri Bettoni)

Anziano (foto di Dimitri Bettoni)

L'accordo è figlio del dialogo tra muhtar e capifamiglia siriani, e ancora una volta riemergono le antiche dinamiche di clan, questa volta non per dividere, ma per unire e rinsaldare i vincoli e i doveri di ospitalità, superare le diffidenze. O forse semplicemente perché di fronte alla fame, alla sete e alla disperazione, offrire aiuto è un gesto di dignità e prestigio.

“Tornerete in Siria?” cerco di chiedere con l'aiuto degli interpreti. La risposta è sì, inequivocabile e senza esitazione, sorretta dalla speranza di trovare le proprie case ancora intatte e tornare a coltivare la terra, riallacciando un legame millenario che la guerra minaccia di spezzare per sempre.

È ormai tardo pomeriggio, quando risaliamo sui mezzi per tornare a Şanlıurfa. Un uomo anziano, coperto da un lungo vestito bianco e sorretto da un bastone nero, passeggia lungo la strada polverosa. Incede con passo lento, solenne, con un'imperturbabilità che si fissa nella mia mente in contrasto con la frenesia della giornata, con le decine di occhi tristi e bocche affamate e sorridenti che ho incrociato. Una passeggiata, un momento di normalità nel caos della guerra. Non sono sicuro si tratti di un rifugiato, ma di certo sta trovando rifugio in un attimo di preziosa semplicità che impone rispetto.

Nel frattempo, ci sono milioni di persone in fuga, dalla Siria, dall'Iraq, da molti altri paesi sconvolti dalle violenze, verso la Turchia, verso l'Europa, verso qualunque posto che offra loro speranza, riparo, sicurezza, sopravvivenza. Per farlo percorrono migliaia di chilometri, in territori talvolta ospitali, spesso ostili tanto quanto i loro abitanti. Non è certo una passeggiata.


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