
Chiatura - © Alberto Canci
Nel cuore della Georgia, una comunità plasmata da un metallo lotta per non venirne sepolta. Un secolo di intensiva estrazione l’ha lasciata malconcia, malata e senza voce. Ora, con l’attività estrattiva in stallo, Chiatura chiede più che giustizia: è in piazza per il proprio futuro
Prima di addentrarsi nelle recenti proteste e nel tumulto economico che hanno scosso Chiatura, è essenziale comprendere il complesso contesto storico e sociale che ha plasmato questa singolare città mineraria della Georgia centrale.
Chiatura non è semplicemente un luogo di attività industriale: è uno spazio in cui il paesaggio, le persone e l’identità locale sono stati profondamente modellati da oltre un secolo di attività estrattiva.
Incastonata in una profonda valle scavata dal fiume Qvirila, Chiatura si è sviluppata attorno a uno dei giacimenti di manganese più ricchi del mondo. Già agli inizi del Novecento, la città forniva oltre la metà della domanda globale di manganese.
Questo minerale, fondamentale per la produzione dell’acciaio e oggi sempre più strategico per le tecnologie legate alla transizione energetica (come turbine eoliche e batterie per veicoli elettrici), ha da sempre condizionato profondamente il destino economico e sociale della regione.
Durante l’epoca sovietica, Chiatura prosperava come modello di industrialismo estrattivo. Le sue infrastrutture, dalle iconiche funivie dell’epoca sovietica ai vasti impianti di lavorazione, non erano pensate per il benessere della popolazione, ma per massimizzare l’efficienza estrattiva. Persino l’organizzazione dello spazio urbano e la psiche collettiva ruotavano intorno ai ritmi dell’estrazione e dell’esportazione.
Ma questa produttività ha avuto un costo molto importante. L’esposizione cronica alle polveri di manganese ha lasciato un’eredità dolorosa in termini di malattie neurologiche e respiratorie. Oggi, molti anziani presentano sintomi simili al morbo di Parkinson, causati dall’accumulo prolungato di manganese nell’organismo.
Il degrado ambientale è evidente ovunque: il fiume che attraversa Chiatura è annerito dai sedimenti, le colline sono sfigurate da decenni di scavi, e interi villaggi come Itkhvisi e Shukruti hanno subito crolli parziali del suolo a causa di scavi sotterranei effettuati in modo sconsiderato.
Dopo la caduta dell’Unione Sovietica, la popolazione della città è diminuita drasticamente, passando da circa 30.000 abitanti a meno della metà. Nel caos della privatizzazione, la gestione delle miniere è passata a Georgian Manganese, oggi controllata da una rete opaca di holding, tra cui spiccano legami con l’oligarca ucraino Igor Kolomoisky.
Nonostante le promesse di modernizzazione e sviluppo, la compagnia è stata presto accusata di sfruttamento dei lavoratori, inquinamento ambientale e mancanza di responsabilità nella manutenzione delle infrastrutture. La tutela del lavoro era debole, incidenti mortali o danni alla salute erano spesso ignorati o minimizzati.
Il centro fisico e simbolico di Chiatura resta il sistema di funivie, un tempo gratuito per i minatori e oggi rinnovato per l’uso pubblico. Quelle che un tempo venivano soprannominate “bare volanti” simboleggiano oggi tanto l’ingegno quanto il decadimento di un luogo sospeso, letteralmente e metaforicamente, tra passato e presente.
Nonostante tutto ciò, esistono segnali di resilienza. Gli abitanti parlano con orgoglio del ruolo industriale di Chiatura nella storia e immaginano un futuro diverso, fondato sul turismo, sulla valorizzazione culturale e sul risanamento ambientale.
Alcuni propongono di riconnettersi con l’eredità storica e religiosa della zona, con luoghi simbolici come il Monastero di Mghvimevi e il Pilastro di Katskhi. Altri vedono nella città una meta potenziale per il cosiddetto “dark tourism”, attrattivo per chi è affascinato dalle rovine post-industriali e dalla nostalgia sovietica.
Ciò che accomuna queste visioni è il desiderio condiviso di porre fine all’antica dipendenza da un’unica industria estrattiva, o almeno di reinventarla in forma più equa, sicura e sostenibile. Eppure, anche ora che l’attività mineraria è sospesa e il manganese non lascia più la valle, la tensione tra sopravvivenza e sfruttamento resta irrisolta.
L’economia locale è ancora quasi interamente legata a questa risorsa e per migliaia di famiglie la miniera rappresenta l’unico futuro possibile. In quest’ottica le proteste attuali non sono semplicemente una reazione a stipendi non pagati o promesse infrante: sono un grido disperato per difendere il diritto al lavoro, alla dignità e alla possibilità di partecipare alla definizione del futuro di Chiatura.
Non si tratta solo di una città in crisi: è una città la cui identità è stata forgiata (e ora messa seriamente a rischio) dal metallo che custodisce nel suo sottosuolo.
Le ultime proteste
Una crisi lavorativa e ambientale che covava da tempo ha raggiunto il punto di rottura, culminando in licenziamenti di massa, proteste su larga scala e un crescente sconvolgimento sociale. La situazione è esplosa in maniera decisiva nel novembre 2024, quando Georgian Manganese (attore economico centrale della regione e gestore delle miniere di Chiatura) ha annunciato una sospensione di quattro mesi delle attività, citando un crollo dei prezzi globali delle leghe ferrose come motivazione.
Tenendo conto delle proteste continue nei pressi delle miniere, l’azienda ha offerto ai lavoratori il 60% dello stipendio e la copertura assicurativa durante il fermo. Tuttavia, l’annuncio ha suscitato forte preoccupazione tra i circa 5.000 dipendenti di Chiatura e Zestaponi, molti dei quali fortemente indebitati e completamente dipendenti dal reddito minerario.
Ad aggravare la situazione ci sono le storiche proteste degli abitanti di Shukruti, un villaggio vicino alle miniere, che accusano la compagnia di aver distrutto abitazioni e frutteti con pratiche estrattive incontrollate e di non aver mai riconosciuto loro alcun indennizzo.
Nonostante una sentenza del tribunale locale avesse vietato le manifestazioni nelle vicinanze delle miniere nell’agosto 2024, esse sono continuate, contribuendo a un crollo della produzione.
A marzo 2025, con le miniere ancora inattive e i salari promessi mai arrivati o arrivati solo parzialmente, migliaia di persone sono scese in piazza. La società appaltatrice Chiatura Management Company (CMC), legata a Georgian Manganese, ha dichiarato che non avrebbe ripreso le operazioni sotterranee, definendole economicamente insostenibili: una posizione confermata da una perizia del gruppo tedesco DMT.
Secondo l’azienda, nei mesi precedenti aveva contratto prestiti per oltre 83 milioni di lari georgiani per pagare gli stipendi. Contemporaneamente, il governo ha imposto un’ipoteca fiscale a Georgian Manganese, svelando debiti per decine di milioni.
Le richieste dei lavoratori sono presto passate dal pagamento degli stipendi alla completa nazionalizzazione dell’industria mineraria. Il 7 marzo 2025, la CMC ha dichiarato bancarotta, licenziando 3.500 lavoratori e lasciando la città in uno stato di paralisi economica.
Il Primo Ministro Irakli Kobakhidze ha riconosciuto la gravità della situazione, ma ha definito la proposta di statalizzazione “sbagliata per principio”, nonostante Georgian Manganese fosse sotto gestione statale speciale dal 2017.
Durante tutto il mese di marzo, le proteste si sono intensificate: manifestazioni quotidiane, picchetti e scioperi hanno chiesto un intervento diretto del governo. È stato istituito un tavolo tripartito tra Stato, aziende e sindacati, ma senza includere direttamente rappresentanti dei minatori, alimentando ulteriore sfiducia.
A fine aprile, la CMC ha annunciato un piano per rilanciare le operazioni tramite una “riorganizzazione”, con aggiornamenti tecnici e cambi nei ranghi del personale. Alla guida del processo è stato nominato il cittadino russo Mikhail Sotski.
Ma l’annuncio ha sollevato ulteriori polemiche: secondo i lavoratori, il piano prevedrebbe il reintegro di soli 200 addetti su migliaia di licenziati, senza alcuna garanzia reale di riassunzione o trasparenza sulle condizioni contrattuali.
Il 28 aprile sei minatori hanno avviato uno sciopero della fame, mentre il primo maggio scorso è stata convocata una grande manifestazione. Pochi giorni dopo, la tensione è esplosa ulteriormente quando quattro manifestanti sono stati arrestati con l’accusa di aver aggredito il direttore di una miniera. Le accuse sono state aggravate a “violenza di gruppo”, con pene potenziali fino a nove anni di carcere, facendo salire la tensione alle stelle.
Ad oggi Chiatura resta avvolta dall’incertezza economica e dal malcontento sociale. I minatori continuano a chiedere l’intervento dello Stato, il pagamento dei salari arretrati e la possibilità di partecipare alla definizione del futuro industriale della propria terra.
Quella che era iniziata come una vertenza lavorativa si è trasformata in una crisi più ampia, simbolo dei fallimenti di governance, responsabilità ambientale e giustizia sociale nelle cittadine georgiane ancora prigioniere della propria storia mineraria.
Foto - © Alberto Canci
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