Migranti dietro il filo spinato di un campo © Ajdin Kamber/Shutterstock

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Dal 2018 sono molte le associazioni, i movimenti internazionali dal basso e i gruppi informali che si sono attivati a sostegno delle persone in transito lungo la rotta balcanica. E sono loro a sottolineare la necessità di fare rete per contrastare la sempre più diffusa criminalizzazione delle realtà solidali con i migranti

20/09/2021 -  Chiara Martini*

Bihać, cittadina nel cantone di Una-Sana al confine tra Croazia e Bosnia Erzegovina, rappresenta da ormai tre anni un limbo invivibile dove migliaia di persone in movimento - provenienti in gran parte da Afghanistan, Pakistan, Bangladesh, Siria, Algeria, Iran e Iraq - si sono ritrovate bloccate e da dove ogni giorno tentano il game, l’attraversamento del confine, per raggiungere l’Unione Europea.

Insieme a Velika Kladuša, cittadina a 58 km da Bihać, in questi anni Bihać è diventata il nuovo crocevia della rotta balcanica, a causa della sua prossimità con il confine croato e perché l’eredità post conflitto e la struttura governativa tripartita della Bosnia Erzegovina hanno reso impossibili decisioni politiche unitarie e coerenti ad una eventuale ridistribuzione dei migranti sull'intero territorio del paese.

Nell’ultimo anno e mezzo la gestione dei campi nel cantone di Una-Sana è cambiata drasticamente. Nel 2018 l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) era intervenuta per creare quattro campi di accoglienza temporanea: Bira e Miral per gli uomini soli, Sedra e Borici per le famiglie e i minori non accompagnati. Nel 2020 per arginare l’emergenza pandemica viene aperto “temporaneamente” il campo di Lipa, a 25 km da Bihać (circa 7 ore di cammino da Bihać), in una zona isolata e lontana da tutto, senza allacci per l’acqua corrente o l’energia elettrica. Lo scoppio di un incendio a dicembre del 2020, in seguito al quale sono andate distrutte le tende che ospitavano le persone in transito, e le ripetute denunce rispetto alle condizioni di vita all’interno del campo da parte di media e istituzioni italiane ed europee, hanno poi portato Lipa al centro dell’attenzione mediatica, che però si è esaurita molto velocemente. Durante l’estate 2021 il campo è stato quindi ampliato, con nuove strutture e container, ed è stato ufficialmente riaperto il 14 di settembre, con una capacità di circa 1500 persone. Un numero che, come dichiarano molte organizzazioni presenti nella zona, non rispecchia la presenza effettiva di migranti nella zona, di molto maggiore.

La maggior parte delle persone in transito in queste zone però preferisce vivere al di fuori dei campi, in edifici abbandonati utilizzati come squat o nelle cosiddette jungle, accampamenti informali in mezzo ai boschi o lungo il fiume Una: da qui, infatti, è più facile tentare di attraversare il confine ed entrare nel territorio dell’Unione Europea. 

Periodicamente però la polizia locale arriva con autobus, fa delle retate e sgombera questi luoghi, con lo scopo di “ripulire il centro abitato”, portando molte persone a Lipa e rendendo i loro tentativi di attraversare il confine più lenti, difficili e sporadici.

La solidarietà transnazionale si adatta ad una realtà in costante trasformazione

Dal 2018 sono molte le associazioni, i movimenti internazionali dal basso e i gruppi informali che sono nati e si sono attivati a sostegno delle persone in transito lungo la rotta balcanica. Le realtà solidali si compongono di diverse e svariate anime e hanno un carattere fortemente politico e transnazionale. Mentre alcune organizzazioni hanno una presenza fissa nel territorio, molte altre hanno attivato reti di supporto e collaborazioni temporanee, in una prospettiva di aiuto reciproco e scambio. 

Nel corso dell’estate 2021 collettivi e gruppi come il Collettivo Rotte Balcaniche Altovicentino e YaBasta Bologna hanno attivato progetti e staffette di aiuto in supporto a No Name Kitchen e Frachkollectiv   - organizzazioni rispettivamente spagnola e svizzera - attive in Bosnia da tempo. Come raccontano alcuni attivisti locali, la realtà di Bihać in questi anni si è trasformata molto: di fronte a una forte emigrazione della popolazione giovane locale, che spesso si sposta in Germania, Austria e Italia per lavorare, vi è stato un aumento crescente di arrivi di giovani volontari da diversi paesi europei, che si fermano settimane ma spesso anche mesi. Negli anni le loro azioni si sono sviluppate a seconda delle esigenze delle persone in transito e dei cambiamenti di scenario: variano dalla distribuzione di acqua, cibo, vestiti, zaini e coperte negli squat e nelle jungle, alla distribuzione di legna durante l’inverno, all'installazione di pannelli solari per permettere alle persone di ricaricare i cellulari e restare in contatto con le famiglie, a progetti di docce portatili che danno la possibilità di fare una doccia calda a chi vive negli accampamenti informali disseminati per la città e i dintorni.

Organizzazioni come No Name Kitchen, in collaborazione con la rete Border Violence Monitoring Network - attivo per monitorare le violenze sui confini lungo tutta la rotta balcanica - e la rete Rivolti ai Balcani , di cui anche OBCT fa parte, portano avanti anche azioni di advocacy, informazione e sensibilizzazione rispetto alla drammatica situazione in corso, in un’ottica di denuncia che vada oltre il semplice aiuto umanitario e crei un dibattito politico sul regime dei confini, sull’esternalizzazione delle frontiere e sulle violenze e violazioni attuate quotidianamente dalle polizie di frontiera e da agenzie comunitarie come Frontex.

Parallelamente a queste reti transnazionali, da inizio anno si stanno sviluppando anche collaborazioni con associazioni e gruppi locali. Emblematica è l’esperienza di U Pokretu (In movimento), un’associazione nata all’inizio di quest’anno su iniziativa di un gruppo di bosniaci e residenti a Bihać, che sta aprendo un centro giovanile nel centro di Bihać, nel tentativo di portare avanti attività destinate sia alla cittadinanza locale che alle persone in transito presenti in città. L’obiettivo è quello di creare un luogo di aggregazione, incontro e svago sia per sensibilizzare la popolazione locale su problemi, questioni e sfide attuali, come quella delle migrazioni, dello sviluppo sostenibile e della consapevolezza civica, che per cercare di migliorare e attenuare le situazioni di contrasto che spesso si creano tra i locali, le persone in transito e le organizzazioni che li aiutano.

Fin da subito l’associazione è entrata in contatto con le realtà internazionali presenti, offrendo informazioni e supporto ad attivisti e volontari  e cercando di creare una rete di collaborazioni e scambi. Tra di queste vi è anche la onlus veronese One Bridge to Idomeni , attiva lungo la rotta balcanica e in Grecia dal 2016. La volontà di quest’ultima  è quella di supportare le realtà locali, che conoscono meglio il territorio, la cittadinanza e possono intervenire in maniera più diretta sulle svariate dinamiche e criticità che si vengono a creare. Progettare e sviluppare azioni in collaborazione con associazioni locali può infatti essere un modo per avere un impatto sul lungo termine, evitando di portare avanti attività di semplice aiuto umanitario che spesso rischiano di diventare funzionali al processo di invisibilizzazione e normalizzazione del fenomeno migratorio.

Un futuro incerto per le realtà solidali

Se da un lato si stanno creando nuove reti e collaborazioni, dall’altro le prospettive per il futuro di queste organizzazioni è molto incerto. Secondo le associazioni attive nella zona, sembra molto chiara la volontà di rendere il Cantone di Una-Sana una zona hotspot, come quelle esistenti in Grecia, con la peculiarità che questa si troverebbe non all’interno dei confini europei, bensì fuori, in una logica di esternalizzazione estrema delle frontiere.

Allo stesso modo sembra prendere sempre più piede la cosiddetta “logica dei campi”: il campo di Lipa rappresenta chiaramente la direzione delle politiche migratorie europee, sempre più volte a costruire campi controllati e più o meno chiusi, in zone isolate, non visibili, lontane dalla cittadinanza locale, dai turisti, dalle associazioni che offrono un supporto. A ridosso dell’apertura del campo di Lipa sono stati inoltre riportati casi di sgomberi di squat e accampamenti sempre più frequenti, dimostrando l’evidente volontà di raggruppare più migranti possibili all’interno del campo.

Attivisti, operatori e volontari presenti prevedono infatti che, nella prospettiva di rendere Lipa l’unico campo operante nel cantone, dove verranno concentrate le persone in transito - per isolarle, relegarle in zone remote e non visibili e rendere più lento e difficile il tentativo di attraversamento del confine - aumenteranno fortemente le ritorsioni nei confronti sia delle persone che si opporranno a questa imposizione continuando a vivere nelle jungle e negli squat, sia di chi li aiuterà. L’obiettivo di questa strategia sembra essere non solo quello di trasferire le persone nei campi - dove non sono stati creati posti sufficienti - ma anche la creazione di un ambiente ostile, pericoloso e precario, che funga da deterrente per chiunque cerchi di raggiungere il Cantone.

Rispetto alle organizzazioni che lavorano in supporto alle persone in transito sono state raccolte diverse testimonianze di casi di allontanamento coatto dal paese con l’interdizione a farvi nuovamente ingresso per periodi tra i sei mesi e un anno, di sequestro discrezionale del passaporto, di multe e controlli alle organizzazioni che forniscono i visti per i volontari. Il processo di criminalizzazione delle realtà solidali con i migranti e le azioni di repressione si stanno di fatto intensificando, in una direzione trasversale che - non dobbiamo dimenticarci - non tocca solo la Bosnia Erzegovina, ma anche l’Italia, la Grecia e altri paesi europei. Per questo motivo si rivela sempre più essenziale e importante tessere reti, rafforzare legami e instaurare relazioni tra le varie realtà attive, locali e internazionali, creando resistenze e cercando di proporre una risposta politica efficace capace di cambiare e contrastare il regime dei confini e le attuali politiche migratorie europee, sempre più rigide, escludenti e esternalizzate.

 

*Chiara Martini è laureanda in Politiche e Ricerca sociale (LM - Lavoro, Cittadinanza sociale, Interculturalità) presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia e specializzata in Studi sulle migrazioni. Sta svolgendo un periodo di tirocinio presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali della Scuola Normale Superiore all’interno del progetto “Transnational Political Contention in Europe” (TraPoCo), una rete che vede coinvolto anche OBCT. Da qualche anno collabora con l’associazione One Bridge to Idomeni nei progetti in supporto ai migranti in Grecia e lungo la rotta balcanica

 

Il supporto della Commissione europea per la produzione di questa pubblicazione non costituisce un endorsement dei contenuti che riflettono solo le opinioni degli autori. La Commissione non può essere ritenuta responsabile per qualsiasi uso che possa essere fatto delle informazioni in essa contenute. Vai alla pagina del progetto Trapoco


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