Giornata delle fasce bianche a Prijedor "Perché mi riguarda" (foto OBCT)

Giornata delle fasce bianche a Prijedor "Perché mi riguarda" (foto OBCT)

La Giornata delle fasce bianche, che si celebra domani, 31 maggio, è nata per fare memoria dei fatti accaduti nel 1992 a Prijedor (BIH), sotto gli occhi di un’Europa, allora come oggi, troppo silenziosa. E per ricordarci che ogni ingiustizia va raccontata. Intervista con Edvard Cucek, attivista bosniaco

30/05/2025 -  Abitare la terra

(Originariamente pubblicato da Abitare la terra )

Ogni 31 maggio, migliaia di europei si ritrovano per replicare le gesta di un ragazzo coraggioso.

Nel 2012, dopo che l’amministrazione del sindaco Marko Pavić aveva vietato una performance dedicata a 256 donne uccise a Prijedor, Emir Hodžić scese da solo nella piazza principale della città, nel cuore della Republika Srpska (l’entità a maggioranza serba della Bosnia Erzegovina), con una fascia bianca legata al braccio. In silenzio. Protestava contro l’indifferenza delle autorità, che secondo molti, già allora, stavano cercando di cancellare la memoria di quanto accaduto esattamente vent’anni prima, nel 1992.

Quel giorno di trentatré anni fa, le autorità di Prijedor obbligarono i cittadini non serbi a esporre un lenzuolo bianco alle finestre e a indossare una fascia bianca al braccio per essere riconoscibili. Fu l’inizio di un massacro: 31.000 civili, in gran parte bosgnacchi e croato-bosniaci, vennero rinchiusi nei campi di concentramento. Le vittime di persecuzione e deportazione furono oltre 53.000. I morti, 3.173. Tra loro, 102 bambini.

La Giornata delle fasce bianche, che si celebra domani, 31 maggio, è nata per fare memoria di quei fatti, accaduti sotto gli occhi di un’Europa, allora come oggi, troppo silenziosa. E per ricordarci che ogni ingiustizia va raccontata. Ovunque accada.

Ne abbiamo parlato con Edvard Cucek, attivista bosniaco e membro di numerose realtà trentine.

Edvard. Come si presenta oggi Prijedor?

Prijedor è una città apparentemente libera, pulita, con un centro storico ordinato in cui non si percepiscono segni evidenti di disagio. Ma gli edifici non riflettono il reale tenore di vita degli abitanti: l’amministrazione comunale cura molto l’aspetto estetico della città, per rappresentarla verso l’esterno nel miglior modo possibile.

Nel 1991, Prijedor contava circa 112.000 abitanti. Nel 2013 erano scesi a meno di novantamila. La composizione etnica è cambiata drasticamente a causa della guerra: i serbi, che erano il 42%, sono saliti al 62%. I bosgnacchi, anche loro al 42%, sono scesi al 20%. I croati bosniaci sono passati dal 7% all’1%. Questo dice molto sugli effetti della pulizia etnica.

Prijedor è spesso indicata come esempio di ritorno riuscito dei profughi, ma molti villaggi nelle sue vicinanze, come Kozarac, sono ancora oggi spopolati rispetto alla popolazione che avevano prima della guerra. Grazie a vari aiuti internazionali, pochi statali, e pochissimi dalla Republika Srpska, alcune persone sono riuscite a rientrare. Le case sono state ricostruite, le proprietà restituite, ma spesso non è stato garantito il diritto a una vita normale, soprattutto per le persone bosgnacche.

Dopo la prima ondata di rientro, all’inizio degli anni Duemila, molte persone hanno capito che non potevano restare. Sono tornate nei paesi dove si erano rifugiate negli anni Novanta.

Se oggi passaste nei villaggi intorno a Prijedor, una volta a maggioranza bosgnacca, vedreste case molto belle. Sembra quasi di essere in Austria o in Danimarca. Spesso, però, hanno le tapparelle abbassate, sono senza automobili, dai camini non esce fumo. Tante persone hanno ripristinato la residenza, ma non vivono davvero lì.

E l’elaborazione del conflitto? Che spazio trova oggi a Prijedor?

Prijedor è forse una delle città più indietro della Bosnia, da questo punto di vista. Quanto accaduto negli anni Novanta non è mai stato davvero elaborato. Chi ha commesso i crimini di guerra non vuole parlarne, e chi li ha subiti, o prova a raccontarli, non riceve alcun sostegno. Né dalla Republika Srpska, che rifiuta di ammettere le responsabilità dei propri connazionali, né dalle autorità che dovrebbero rappresentare i bosgnacchi. Perché ogni indagine sui crimini dei serbo-bosniaci rischia di innescare richieste simmetriche su quelli che potrebbero aver commesso i bosgnacchi o i croato-bosniaci.

Come dicevamo, Prijedor oggi appare come una città dell’Europa del Nord. Nel centro ci sono monumenti e targhe dedicate ai “martiri serbi difensori della città” e alle vittime serbo-bosniache. Ma non esiste alcun segno pubblico che ricordi le vittime non serbe. E questo dice molto: significa che non siamo ancora usciti dagli anni Novanta.

Pensiamo al dolore di una madre o di un padre che passano davanti alla scuola frequentata dal proprio figlio, ucciso dal suo stesso insegnante. Nel cortile della scuola, un monumento riporta il nome dell’assassino, che magari ha perso la vita al fronte. Il figlio, invece, non ha diritto a nessun ricordo ufficiale nella città. 

Nel 1992 le autorità locali obbligarono le persone non serbe a indossare una fascia bianca al braccio o ad appendere lenzuola bianche alle finestre delle proprie case. Perché?

Il 31 maggio 1992, le autorità serbo-bosniache, che avevano rovesciato il sindaco legalmente eletto nelle prime elezioni democratiche post-jugoslave, imposero ai cittadini non serbi di segnalare le proprie case con un lenzuolo bianco e, se uscivano in strada, di indossare una fascia bianca al braccio. Questo valeva per tutti, indipendentemente dal fatto che si dichiarassero appartenenti a un gruppo etnico costitutivo o a una minoranza.

La costituzione della Bosnia Erzegovina, infatti, riconosce solo tre popoli costitutivi: i bosgnacchi, i croati bosniaci e i serbi bosniaci. Le altre minoranze non hanno diritto a rappresentanza politica.

Il messaggio era chiaro: se vi marchiate in questo modo, vi lasceremo in pace, perché dimostrate la vostra lealtà; altrimenti, sarete considerati nemici. L’ordine fu annunciato sui giornali, in radio e tramite una rete di “controllori di condominio e di quartiere” nelle zone miste. Si trattava di persone reclutate dal quartier generale dell’esercito serbo-bosniaco, proprio perché conoscevano i loro vicini. Erano loro a impedire agli “altri” di uscire di casa se non indossavano il segno distintivo.

Imporre ai civili di marchiarsi non aveva nulla a che fare con la lealtà, ma era un sistema di identificazione delle future vittime. Un meccanismo molto simile a quello adottato nella Germania nazista.

Per questo Prijedor è una città particolare. È teatro di un evento tragico, rimosso, che ancora oggi non è stato elaborato. Anzi, c’è chi lo nega, nonostante gli atti giudiziari e le sentenze definitive.

La Giornata delle fasce bianche nasce da un gesto di disobbedienza civile. Puoi raccontarci meglio quella storia e cosa ha significato per la città?

Nel 2012, un giovane, Emir Hodžić, scese in piazza da solo, portando con sé un sacco e una rosa. Il sacco rappresentava tutte le donne uccise a Prijedor; la rosa, ogni bambino.

Si mise in piedi, in silenzio, con una fascia bianca al braccio. Nessuno, nemmeno la polizia, si avvicinò. I cittadini passavano senza dire nulla, nessuno chiedeva spiegazioni. Ma quello di Emir non era un messaggio rivolto ai suoi concittadini. Non era una minaccia, un “attenzione, non abbiamo dimenticato”, ma un grido rivolto al mondo, oltre i confini della sua città.

Lui stesso raccontò che fece quel gesto perché convinto che, dopo vent’anni, si potesse finalmente ammettere le proprie colpe, rendere onore, in qualche modo, a tutte le vittime innocenti e ricominciare a guardare i propri concittadini come esseri umani, prima di ogni appartenenza.

Quel gesto diede inizio a una tradizione che oggi conosciamo come Giornata Internazionale delle Fasce Bianche. Ma già l’anno dopo, nel 2013, quando si presentò una richiesta formale per organizzare una manifestazione pacifica in occasione della ricorrenza, il sindaco dell’epoca, Marko Pavić, la vietò.

La motivazione fu assurda e offensiva allo stesso tempo. Pavić definì l’iniziativa in modo apertamente omofobo: la chiamò “una passeggiata dei froci”, perché tra gli organizzatori c’erano delle persone appartenenti ad associazioni che difendevano i diritti LGBT+. Ridusse così una tragedia che aveva colpito una parte dei suoi concittadini a un pretesto per esprimere la propria omofobia.

Questo, secondo me, aggrava ancora di più la sua posizione. Dimostra quanto la città fosse, allora, ancora intollerante e incapace di riconoscere i propri errori.

Oggi, com’è vissuta a Prijedor la Giornata delle fasce bianche? E nel resto del mondo?

Con il tempo, la Giornata delle Fasce Bianche è diventata un appuntamento riconosciuto a livello internazionale. A Prijedor, però, resta un momento divisivo. Dovrebbe essere vissuto come un esame di coscienza collettivo, ma non tutti sono pronti ad affrontarlo. Per questo la commemorazione è sobria e partecipata solo da qualche centinaio di persone.

Durante la cerimonia si tengono pochi interventi. È stato deciso che nessun politico bosgnacco possa prendere la parola, per evitare ogni strumentalizzazione elettorale. Nel frattempo, però, nessuna autorità della maggioranza serbo-bosniaca ha mai preso posizione pubblicamente. I permessi vengono concessi, ma le istituzioni fanno finta che quel giorno sia come tutti gli altri.

Fuori dalla Bosnia, invece, il sostegno internazionale cresce. In Canada, negli Stati Uniti, in diversi paesi europei, sono nate commemorazioni grazie alle associazioni della diaspora bosniaca, che hanno coinvolto attivisti, comunità locali e amministrazioni. Anche in Trentino celebriamo questa giornata dal 2018, grazie in particolare all’Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa, all’Associazione 46° Parallelo, a Trentino con i Balcani e al Forum trentino per la pace. Quest’anno, ad esempio, saremo al Parco della Pace di Ossana, dalle 17.00, con una performance dell’artista Monia Cappiello.

Chi conosce la Bosnia sa quanto sia importante sostenere l’attivismo anche da fuori.

A Prijedor c’erano tre campi di concentramento. I processi per crimini di guerra sono stati oltre sessanta, con più di quaranta condanne definitive: quasi tutti erano cittadini di Prijedor. Le persone condannate sono ritenute responsabili dello sfollamento o della morte di oltre 50.000 persone. Sono fatti impossibili da negare. Eppure, qualcuno continua a farlo.

Per fortuna, molti li conoscono, anche grazie al coraggio di alcune persone che si sono esposte pubblicamente, come i partecipanti all’iniziativa Jer me se tiče (“Perché mi riguarda”), tra i quali ci sono anche molti cittadini serbo-bosniaci. Penso inoltre ai primi attivisti dell’associazione “Kvart”, come Goran Zorić e Branko Ćulibrk. Insieme a loro, portano avanti questo impegno anche Fikret Bačić ed Edin Ramulić, due pacifisti che partecipano senza esitazione alle commemorazioni delle vittime appartenenti ad altri gruppi etnici. 

L’umanità non manca, nemmeno là dove tutto sembrava perduto. Ma hanno bisogno di essere ascoltati. Hanno bisogno di sentirci vicini.

Le loro storie, e l’impegno di chi in ogni parte del mondo scende in piazza per Prijedor, mi fanno sperare che un giorno le nuove generazioni sapranno guardare la verità negli occhi. E non solo convivere, ma costruire una vita insieme.


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