Un'iniziativa de "Il gioco degli specchi"

Un'associazione - "Il gioco degli specchi" - che si occupa di migranti e che promuove, ormai da 10 anni, un festival di una settimana dedicato alle culture allo specchio. Abbiamo intervistato Maria Rosa Mura, sua instancabile animatrice

12/11/2013 -  Chiara Sighele

Ci racconta della vostra associazione e di come è nata l'avventura della Settimana?

Da subito nelle nostre attività abbiamo sottolineato la specularità tra quanto vivevano i nostri emigrati e l'immigrazione che ci ha coinvolto in questi anni.

Da subito significa molti anni fa, da quando, al tempo volontari di A.T.A.S. Onlus da cui siamo nati per gemmazione, abbiamo organizzato i primi corsi di italiano per adulti stranieri. Era il 1994, nei corsi i rapporti sono tra persone ed è stato istintivo cercare di saperne di più su chi avevamo di fronte, sulle loro storie, i loro paesi di provenienza. Che è poi tutto il mondo!

Sono così iniziate, come una conseguenza dei corsi, le nostre attività culturali: abbiamo cercato di condividere con altri quanto andavamo scoprendo nei rapporti interpersonali e nelle letture..

La Settimana de “Il Gioco degli Specchi” compie dieci anni e per l'occasione invitate chi vi segue a postare sul web una propria riflessione sulla società italiana, la cultura odierna, il suo rapporto con la migrazioni. Ma quale la riflessione in merito di Maria Rosa Mura?

Per far conoscere a una cerchia più ampia di persone le conoscenze e le riflessioni dei volontari, abbiamo dato avvio nel 2003 a una settimana molto intensa di attività culturali, chiamando moltissimi ospiti e testimoni.

I titoli scelti per le iniziative che in questi anni si sono succedute riflettono bene quello che penso. Gli uomini non sono alberi: nessuno riesce a tenerli fermi, qualunque ostacolo frapponga al loro movimento. Checché se ne dica gli uomini non hanno radici, né a rizoma né a fittone, invece, secondo la bella immagine proposta da Maurizio Bettini (Bettini, Maurizio - Contro le radici. Tradizione, identità, memoria, Il Mulino, Bologna, 2011, ndr) sono fiumi, che hanno certamente una sorgente individuabile ma si arricchiscono delle acque che incontrano nel loro percorso.

Noi È plurale: la nostra società come tutta la vita si basa sulle differenze, non esistono individui uguali, non ci sono popoli interi a blocchi monolitici. Affermata queste realtà e considerando che siamo tutti collegati l'uno all'altro più di quanto non sembri, dobbiamo considerare che questi legami sono Fili d'oro perché possono costituire una miniera di possibilità per una crescita individuale e collettiva.

Se usciamo dal regime delle paure, anche provocate ad arte, e cerchiamo la conoscenza razionale della realtà, verifichiamo i pericoli oggettivi e teniamo sotto controllo i pregiudizi, valorizziamo le persone per quello che sono, a prescindere dal luogo in cui casualmente sono nate, non possiamo che arrivare ad una vita migliore per tutti.

I migranti non sono un pericolo in sé, sono un arricchimento.

Voi parlate di migrazione, cultura e società attraverso la letteratura e ad esempio un'espressione artistica come il cinema. Raccontare e ascoltare storie è il cuore del vostro approccio, perché?

Al centro della nostra attenzione ci sono sempre state delle PERSONE, le loro vite i loro sentimenti, le necessità uguali per tutti. Ci è sempre parso che la narrativa e il cinema, che danno vita a delle persone, potessero suscitare l'empatia necessaria a riconoscere l'essere umano nella massa indistinta, aiutassero a rivestirne i panni e capirlo. L'emozione aiuta a capire, forse più di un trattato.

In questi anni avete esplorato in più occasioni il territorio che va dall'Italia ai Balcani, ci ricorda qualche evento che avete promosso?

Qualcuno l'abbiamo realizzato anche insieme ad OBC, ad esempio quando abbiamo portato Fatos Lubonja nelle sale di palazzo Geremia a Trento a discutere con Claudio Bazzocchi la storia contemporanea dell'Albania. La sala quella sera era molto vivace, con giovani studenti albanesi irritati per le critiche di Lubonja al loro idolo Kadarè. Per lui reo di avere indirettamente sostenuto la dittatura, per loro (e confessavano di non averlo letto) un mito che li valorizzava essendo noto anche in Italia.

Un momento importante è stata la mostra che lo Studio d'arte Andromeda di Trento aveva organizzato per la nostra settimana del 2005,  I vostri Balcani, i nostri balconi, vignette di disegnatori delle due sponde dell'Adriatico.

Ci sono stati momenti meno visibili e più tragici: quando le bombe cadevano su Belgrado con una amica originaria di Smederevo ci siamo detti che dovevamo assolutamente smentire i giornali che ogni giorno parlavano di tribù balcaniche, di antichi odi tribali e che dovevamo fare onore alla Cultura di queste popolazioni.Così abbiamo piazzato un tavolo in strada per vendere libri dei grandi della letteratura dei Balcani. Sia chiaro, non abbiamo venduto niente! Ma lei si è sentita confortata e noi abbiamo imparato a conoscere ed amare quei grandi autori, a vedere da vicino la ricca complessità di quell'area.

Tra gli oltre 500 libri segnalati sul vostro sito o ospiti nelle vostre Settimane, grande spazio avete dato anche a scrittori del sud est Europa e alle loro opere. Quali autori, personaggi, paesaggi le sono più rimasti nel cuore?

Sono i grandi di una letteratura da noi poco nota, per anni non si è andati oltre Andrić e Kadarè, ora provvedono piccole e coraggiose case editrici anche locali.

Penso alle domande sul male e la bontà poste da Mehmed Meša Selimović in La fortezza, o sul potere, come nell'intensa prosa di Danilo Kiš, oppure alla vena ironica di tanti scrittori rumeni, i quadri di vita quotidiana di Dan Lungu, Il paradiso delle galline ad esempio, la cultura che trasuda dalla casa tappezzata di libri descritta da Catalin Dorian Florescu ne Il massaggiatore cieco.

Amo molto Dubravka Ugresić e la tristezza della sua rievocazione di brandelli di patria, e della nostra esistenza, nel Museo della resa incondizionata e Gëzim Hajdari, un grande della poesia nelle sue due lingue,

Ma ci sono altri che hanno avuto significato anche per la relazione di affetto che si è instaurata con loro nel tempo: Ron Kubati e i suoi indimenticabili bambini, in Va e non torna e in Il buio del mare, Božidar Stanišić  con le sue non-poesie, il suo continuo interrogarsi, il dubbio costante che fonda anche un modo di vivere, di relazionarsi con gli altri, di ascoltarli e capirli. Sono suoi i paesaggi tristi e sereni della quotidianità friulana in cui si affaccia all'improvviso la fitta di dolore del prima.

Siete promotori del festival ma anche costantemente in contatto sul territorio con le comunità immigrate. Ci fa un breve quadro delle comunità in Trentino provenienti dai Balcani?

Abbiamo sempre avuto scopi sociali abbiamo sempre cercato di lavorare in rete con altre associazioni. Da Progetto Prijedor al Tavolo per il Kossovo a Siminore sono state molte le associazioni che unificavano intorno a dei progetti concreti italiani e immigrati.

Abbiamo trovato molto vivaci ed attive da tempo le associazioni di persone di origine albanese, da Dibra col gruppo Korabi, alla più recente Associazione culturale donne albanesi in TrentinoTeuta, a quelle degli studenti universitari

Dai tempi degli immigrati adulti, maschi soli, ad ora molte cose sono cambiate. Ormai l'immigrazione è stabile e in molti si sono organizzati per farsi conoscere, per instaurare rapporti con la comunità trentina originaria e per aiutarsi e sostenersi come un gruppo familiare, come spesso fanno i migranti, anche all'interno della stessa nazione.

Abbiamo visto nascere Rasom, Associazione Cristiano Culturale degli ucraini del Trentino, quella dei Romeni del Trentino-Alto Adige, o l'associazione Moldova.

Spesso organizzano un gruppo di ballo folkloristico, cene sociali, incontri culturali o per ricordare le tradizioni, sempre con l'intento di far conoscere la cultura del loro paese e di mantenerle per i loro figli ormai italiani. È un lavoro non facile, a cui collaboriamo sempre per quanto ci è possibile.

Nell'ultimo anno e mezzo OBC si è occupato di migrazione femminile svolgendo una ricerca sul welfare transnazionale tra Trentino e Romania. Parlando di migrazione femminile, cosa ci può raccontare Il Gioco degli Specchi?

Vi sono stati incontri molto importanti a livello personale. Il Gioco degli Specchi ha potuto fare un'azione piccola, ma per le persone interessate, molto importante di valorizzazione: nel 2003 una festa dedicata a queste donne, un grazie ufficiale, pubblico, ampiamente promosso, per un lavoro di cura misconosciuto anche nel nome con cui queste persone vengono designate: badanti.

A questo termine abbiamo contrapposto la valorizzazione della persona ogni volta che ne abbiamo avuto l'opportunità: una badante-giornalista ha pubblicato i suoi articoli sul nostro periodico, le badanti-insegnanti di liceo hanno organizzato con noi incontri culturali, recite di poesie, esposizioni di quadri. Microazioni, ma tra quelle che ci hanno dato più gioia. Per anni abbiamo organizzato "Di che poesia sei?" e partecipavano in molte recitando poesie, a memoria, secondo una loro radicata consuetudine.

Ai giovani dedicate un'attenzione crescente e più d'una delle proposte in rassegna quest'anno vede i ragazzi coinvolti in prima persona come attori, lettori, giornalisti...

In effetti negli ultimi anni abbiamo rinunciato alla formula magniloquente, con moltissimi ospiti e manifesti sempre più grandi nelle strade e abbiamo scelto un tipo di lavoro in profondità e quindi, inevitabilmente, nelle scuole.

Ci sono nelle nostre scuole splendidi insegnanti, che invogliano a lavorare per sostenerli, capaci di valorizzare al massimo l'incontro con l'autore che proponiamo, il filmato che presentiamo. Le cosiddette seconde generazioni sono più difficili da 'stanare' e non cerchiamo mai di farlo in una classe, emergono, se vogliono, quando entrano i nostri operatori di origine straniera.

È un ambito in cui il lavoro da fare, a sostegno degli sforzi degli insegnanti, è ancora davvero molto. Pensate solo al ruolo a cui è ridotta la geografia nei nostri programmi! I Balcani: quale idea ne hanno in generale le persone?

I figli degli immigrati in ogni caso sono nella posizione più fragile, sulla linea di faglia, devono ricevere il massimo delle cure. Avevamo dedicato ai loro problemi anche una serie di trasmissioni RAI, «G2, migrare senza volere», bisogna pensare seriamente a loro, a volte le loro difficoltà possono avere esiti tragici.

La rassegna 2013 si intitola “Dalla paura alla speranza: per il benessere comune”. Come sono il Trentino e l'Italia che immaginate/sognate e volete contribuire a costruire?

Vorremmo che le paure fossero dominate, riferite a pericoli reali. Vorrei che ci fosse più Cultura, le paure sono figlie dell'ignoranza. Vorrei che gli italiani ricordassero quanto gli emigrati hanno subito e ne tirassero le conseguenze. Vorrei che studiassero a scuola che paghiamo nelle accise della benzina la guerra all'iprite di Mussolini contro gli etiopi. Vorrei che gli immigrati fossero considerati individualmente, non a blocchi etnici, che non fossero marchiati come criminali per il fatto che hanno o non hanno documenti. Vorrei che il legislatore italiano cancellasse la vergogna dei CIE, dei CARA, dei campi rom e di altre diavolerie razziste che i migranti avessero i diritti di tutti gli uomini: di spostarsi per cercare rifugio e una vita migliore. Vorrei che gli italiani si rendessero conto che la società è meticcia e che meticci lo siamo sempre stati. Vorrei che tutte queste differenze riuscissero a convivere, non in una pace omologante, ma in un dialogo/incontro/scontro, in uno scambio reciproco, nel rispetto gli uni degli altri. Abbiamo conquistato il rispetto per le minoranze cimbre (minoranza del Trentino, ndr), perché non quello per i fedeli islamici col diritto di costruirsi una moschea? Gli immigrati sono ora famiglie stabili, fanno parte della comunità, di una Italia che si è data una Costituzione. Per me chi ha deciso di vivere in Italia e di allevarvi i suoi figli è un cittadino italiano, per lui vale la Costituzione e l'articolo 3. Vorremmo, come diceva l'amico Rino Zandonai, un mondo più umano. Chiediamo troppo? In ogni modo per questo lavoriamo con la convinzione che, un passo alla volta, possiamo vivere tutti meglio.


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