Venezia - chiesa di S.Lazzaro (foto P.Martino)

"Tutti parlano della Siria, ma nessuno fa niente. Possibile che il mondo intero, vedendo le frustate che riceviamo, si sia messo a contarle invece che fermarle?", Ibrahim ha vent'anni, vive a Damasco e vuole una Siria diversa. L'ultima puntata del reportage "Dal Caucaso a Beirut", un intenso viaggio alla scoperta della diaspora armena mediorientale

19/10/2012 -  Paolo Martino
Dal mio diario. 11 dicembre

Ibrahim tiene il finestrino abbassato, seminando le sue giovani idee nell'aria ferma di mezzogiorno. Nelle sue parole affilate come pietre si compie il risveglio di una generazione. La Primavera araba è anzitutto un processo di riappropriazione verbale, la conquista di una dimensione espressiva nuova e compiuta. Anche se il regime sopravviverà a se stesso, anche se Assad e i suoi cortigiani resteranno sul trono, sconosciuti eroi come Ibrahim avranno comunque raccolto il più bel fiore della loro Primavera: la forza di parlare.

Al Tall, venti minuti di guida dal centro di Damasco. Le serrande alzate dei negozi strabordano di merce, i bambini corrono incontro alle mamme all'uscita di scuola. Come a Damasco la vita scorre uguale a se stessa, come nella capitale ogni cosa sembra al suo posto. La stessa ripetizione di ostinate normalità in attesa del cambiamento che incombe. Ibrahim svolta all'improvviso, fermandosi davanti alle poste: “Li abbiamo scritti durante la manifestazione di venerdì scorso”. Lo sguardo sale fino al terzo piano, dove slogan di protesta contro il regime coprono l'intonaco. “Lassù non è facile cancellarli”. Come una cascata di versi, le scritte scendono fino al piano terra. Con discrezione i passanti le leggono fingendo di fare altro.

Armeni e ebrei, siamo tutti qui.

Dovreste ricordarlo più spesso in Occidente,

il Medio Oriente è l'unico rifugio

per i sopravvissuti ai genocidi.

Vahe, commerciante ambulante armeno di Beirut

“Benvenuto, casa nostra è casa tua”. Mahmud e Khalil, padre e fratello di Ibrahim, siedono a gambe incrociate intorno alle mezze, piatti a base di pasta di ceci, yogurt e olio d'oliva. Non hanno mai ricevuto giornalisti, banditi dal regime fin da quando la protesta popolare ha conquistato le piazze. “I tempi in cui conveniva restare in silenzio sono finiti”. L'anziano Mahmud versa tè di menta e limonella. “A che serve nascondersi quando il regime punisce tutti indiscriminatamente?”

Ibrahim ha vent'anni, ma il suo sguardo ne tradisce il doppio. Insieme a un gruppo di colleghi universitari, la mattina del 18 marzo ha atteso in disparte la fine della grande preghiera del venerdì nel cortile della Mosche Omayyade, cuore pulsante della vecchia Damasco. Mentre i fedeli lentamente uscivano dalla sala di preghiera, i ragazzi hanno intonato i loro cori di protesta, facendo sponda all'eco di ribellione partito quattro mesi prima dalla Tunisia. “La moschea Omayyade rappresenta la storia immensa di questo paese, umiliata negli ultimi quarant'anni dalla dittatura degli Assad. Per questa ragione ci siamo riuniti lì”. Il servizio segreto sapeva già tutto. “Ci aspettavano al portone, senza divise, armati di bastoni. Non so per quanto tempo ci hanno detenuto, sottoterra la luce è sempre uguale”.

Circa un mese dopo, tutta la famiglia viene arrestata. Ibrahim annuisce mentre suo padre ripercorre l'infinita notte dell'irruzione in casa delle forze speciali. “Ci hanno bendati con la maglia, ammanettati e sbattuti in strada”. Sulla camionetta altre decine di prigionieri. “Offendevano le nostre mogli e sorelle. Chi reagiva, una volta arrivato in prigione, finiva nelle mani dei torturatori”. Quella notte ad Al Tall gli arresti sono più di millecinquecento. I tre vengono rilasciati dopo quattro interminabili giorni. “Ma molti altri sono spariti, svaniti nel nulla”. Mahmud si congeda. “Tutti parlano della Siria”, conclude, “ma nessuno fa niente. Possibile che il mondo intero, vedendo le frustate che riceviamo, si sia messo a contarle invece che fermarle?”

La strada verso il monastero di Saydnaya serpeggia tra i declivi morbidi di Qalamum. La vegetazione sempre più rada lascia posto a un panorama senza tempo, fotografia del secolo in cui i monaci posero sulla roccia le fondamenta imponenti della chiesa. Ibrahim guarda preoccupato il cielo sopra Damasco, a valle. “Tutto dipende dal cielo. Solo una no fly zone dell'Onu potrebbe fermare i massacri compiuti dagli elicotteri durante le manifestazioni”. Una coltre gialla si addensa sulla capitale. “La rivoluzione vincerà comunque, ma per me il tempo è essenziale. Tra qualche mese verrò chiamato per la leva obbligatoria, e se il regime non cadrà prima dovrò fuggire”. Migliaia di giovani siriani si trovano nella sua stessa condizione. “Non punterò mai il fucile contro la mia gente”.

Famiglie cristiane e musulmane passeggiano tra i chioschi e le cappelle del monastero di Nostra Signora, dove Ibrahim parla senza timore di essere ascoltato. “Un sunnita come me già sa che la sua carriera è destinata alla mediocrità”. Il filo dei ragionamenti intreccia desideri e aspettative per una società basata sull'uguaglianza, sulla parità dei diritti, sulla meritocrazia. “Capisco che le minoranze abbiano paura del cambiamento.” Un crocifisso si staglia come un sigillo sul tramonto. “Ma cristiani, ebrei, alawiti, curdi, armeni, drusi e sunniti vivevano pacificamente in questa regione molto prima che arrivasse la dittatura degli Assad. Questa,” conclude, “è anche la loro rivoluzione, perché quando sarà finita le differenze non avranno più importanza”.

Dal mio diario. 12 dicembre.

 L'ultima notte di Damasco vibra di pensieri. “Quando tornerai a trovarci,” promette Ibrahim prima di addormentarsi, “la Siria sarà un paese diverso.” Nel buio della stanza la rivoluzione sembra riempire ogni spazio, fino a togliere il respiro. Senza il sostegno delle minoranze la protesta sta scivolando verso la guerra civile. Sarà di nuovo Libano, sarà di nuovo Iraq. Coraggio e tirannia impareranno a scambiarsi velocemente l'abito, e ancora una volta la storia non offrirà ai suoi figli che una alternativa: continuare a sopravvivere. Lo spazio per prendere appunti è finito, non ho avuto il coraggio di portare il diario e la guida turistica ha tre o quattro pagine bianche in tutto. Domani lascio Damasco, dopo un anno di viaggi rientrerò a casa per Natale. Buonanotte Ibrahim.

Epilogo

Il vaporetto si avvicina all'isola di San Lazzaro degli Armeni cavalcando le onde lunghe della Laguna, mentre sul versante opposto il profilo di Venezia si fa sempre più tremolante. La piccola isola ospita la più evidente traccia della presenza armena in Italia. Sul molo, il custode accoglie il piccolo gruppo di visitatori del primo pomeriggio. “Benvenuti”. Kevork è armeno del Libano, e ha i tratti semplici di tanti armeni conosciuti tra il Caucaso e Beirut. “Ormai sono in Italia da trent'anni, torno in Libano raramente, solo per qualche giorno”. Un sorriso malinconico attraversa il suo volto. “Beirut non tornerà mai a essere quella di prima della guerra civile. E' impossibile rieducare gente che ha guidato per venticinque anni senza semafori”.

Il sole basso si specchia nell'acqua ferma della laguna, mentre nel silenzio che avvolge l'isola anche i pensieri sembrano fare rumore. Seduto sul molo, da solo, estraggo l'ultima sigaretta da un pacchetto comprato all'aeroporto di Yerevan. La torcia che Tamara tiene in mano brucia ancora, rinnovando il disperato richiamo per un uomo che non arriverà mai. La leggendaria donna raffigurata sul pacchetto dà il nome all'isola di Aktamar, nel lago di Van, santuario armeno di silenzio proprio come San Lazzaro. Da troppo tempo Tamara cerca il suo uomo, da troppo tempo il suo amore è annegato negli abissi mentre cercava di raggiungerla a nuoto. Il pacchetto ondeggia a lungo sulla superficie densa della laguna finché Tamara, finalmente, precipita verso il suo destino. E la leggenda è pronta per essere raccontata di nuovo.  


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