I partecipanti alla marcia #overthefortress (foto di Lucia Pantella)

I partecipanti alla marcia #overthefortress (foto di Lucia Pantella)

Nel fine settimana di Pasqua centinaia di persone sono partite dall'Italia per Idomeni. Per dare il loro appoggio ad un'Europa dell'accoglienza. Un incontro con Lucia Pantella, una delle partecipanti alla marcia

01/04/2016 -  Francesco Martino

A Idomeni “migliaia di persone sono costrette oggi nell'incertezza più profonda, ad una vita in stand-by, nella fragile speranza che la porta verso l'Europa, oggi sbarrata, possa venire nuovamente aperta”. Ma mentre questo non succede le condizioni nel campo situato al confine greco-macedone – che al momento ospita 11-16mila persone – sono estremamente difficili, “e sicuramente al di sotto degli standard minimi che garantiscano una vita dignitosa”.

Lucia Pantella, 35 anni, con esperienza pregressa come coordinatrice di programmi umanitari con delle ONG internazionali, è stata una delle circa 300 persone che durante il weekend pasquale hanno partecipato alla marcia #overthefortress, promossa dai Centri Sociali del Nord Est, dal Progetto Melting Pot Europa e dall’Associazione Ya Basta! Êdî Bese e partita dal porto di Ancona lo scorso 25 marzo.

Una marcia che arriva nel contesto di un'iniziativa partita già nell'autunno 2015, con una staffetta che ha portato aiuti umanitari lungo l'intera “rotta balcanica”, dalla Croazia all'isola greca di Samo passando per Serbia e Macedonia, monitorando allo stesso tempo le condizioni di vita di rifugiati e migranti e gli effetti sul campo delle politiche europee e nazionali.

“La marcia ha avuto un carattere non solo umanitario, ma anche e soprattutto di testimonianza”, racconta ad OBC Lucia. “Le circa 300 persone che hanno viaggiato per raggiungere Idomeni, persone di diversi ceti sociali, professioni, età, volevano non solo portare aiuti, ma dire ad alta voce di non sentirsi rappresentati dalla politica dei muri, gridare che la propria voglia di un'Europa diversa e inclusiva”.

“La visita al campo di Idomeni è sicuramente un'esperienza umana toccante. Ho lavorato a lungo nel settore non governativo, e ho avuto modo di visitare molti campi profughi, da quelli che in Chad raccolgono i rifugiati del Darfur, a quelli allestiti in Turchia per i siriani. Fa male constatare che Idomeni, situato nel cuore dell'Europa, è uno dei peggiori”.

Per Lucia, il fatto che il campo sia nato come stop temporaneo giustifica solo parzialmente le condizioni estreme in cui rifugiati e migranti sono costretti a vivere. “Non si è fatto nemmeno lo sforzo minimo di illuminare il campo di notte. L'accesso ai servizi di base, all'acqua, alle strutture sanitarie è difficile, soprattutto per le famiglie con bambini piccoli. Una responsabilità che cade innanzitutto sulle autorità greche, ma a cui non è estraneo l'atteggiamento generale di chiusura da parte dell'Europa. Quello che però rende la vita ad Idomeni così dura è soprattutto l'incertezza”.

Incertezza che, nel racconto di Lucia, riguarda quasi tutti gli aspetti dell'esistenza nel campo. “La mancanza di informazioni precise è il principale motivo per cui la maggior parte di chi vive a Idomeni rifiuta il trasferimento nei campi alternativi che vengono oggi allestiti dal governo di Atene. In tanti si chiedono se questo non sia il primo passo verso un rimpatrio forzato verso la Turchia, prospettiva temuta soprattutto dai curdi, sia iracheni che siriani”.

A tenere tanti alle “porte sbarrate d'Europa” è però anche la speranza che queste possano improvvisamente aprirsi. “L'arrivo della nostra carovana ha portato al diffondersi di voci, secondo le quali i partecipanti avrebbero provato a forzare il confine. Per evitare tensioni, abbiamo quindi dovuto spiegare ai rappresentanti dei rifugiati che questo non sarebbe successo”.

“Non ho visto rabbia negli occhi e nelle voci di chi è bloccato ad Idomeni, anche se in alcuni casi la permanenza nel campo ha superato il mese e mezzo. Ho visto però delusione, disperazione, frustrazione, che spero non si trasformi un giorno in collera. Alcuni hanno detto di voler provare a raggiungere i propri familiari già in Europa su un'altra rotta, magari passando per la Libia. Per tanti, però, soprattutto per le tante famiglie presenti ad Idomeni, per chi non ha più risorse economiche o è troppo stanco, la rotta balcanica resta l'ultima chance”.

La delusione, secondo Lucia, non riguarda soltanto i migranti, ma anche i tanti attivisti greci che continuano a sostenere chi vive ad Idomeni. “In generale i greci si sentono abbandonati dall'Europa, un sentimento nato con la crisi economica e reso ancora più profondo dalle politiche migratorie, che hanno trasformato il paese in un grande campo profughi”. Nonostante tutto però, “la società civile greca resta attiva, e l'impegno a favore dei rifugiati è grande e costante, sia vicino al confine macedone, dove oltre a Idomeni ci sono altri campi, sia sulle isole dell'Egeo”.

Oltre alla distribuzione di aiuti a rifugiati e migranti, i partecipanti alla marcia #overthefortress hanno collaborato con varie associazioni e realtà presenti nel campo. “Abbiamo donato medicinali di prima necessità a Medici del mondo, mentre con Medici senza Frontiere abbiamo lavorato per creare un centro permanente per la ricarica dei cellulari – nel campo non c'è elettricità – e per installare un punto wi-fi aperto, e garantire così accesso a informazioni e alla comunicazione con amici e parenti”.

L'impegno di chi ha partecipato alla marcia non termina con il ritorno in Italia, avvenuto lunedì 28 marzo. “Quattro persone sono rimaste ad Idomeni, per assicurare una presenza che proseguirà a staffetta nel futuro. Al tempo stesso, io e tanti partecipanti come me faremo di tutto per condividere questa esperienza sul territorio, con le tante foto, i video, il racconto di quanto abbiamo visto e vissuto ad Idomeni. Perché per abbattere i muri e il filo spinato, il primo passo è quello di aprire le porte al dibattito e alla conoscenza.


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