Articles by Michele Nardelli

Conclusioni del dibattito: dieci anni di cooperazione con il sud est Europa

06/12/2001 -  Michele Nardelli

Pubblichiamo l'intervento conclusivo di Michele Nardelli alla conferenza "Dieci anni di cooperazione con il sud est Europa: bilancio, critiche, prospettive...", svoltasi a Trento lo scorso 24 novembre.

Umanitario: continuare la guerra o pensare la pace?

23/11/2001 -  Michele Nardelli

Sacche gialle dal cielo. Così, gli stessi aerei che scaricano ordigni di morte diventano i nuovi attori dell'intervento umanitario...

Genova vista dai Balcani

31/07/2001 -  Michele Nardelli

Mentre gli otto signori della Terra si riunivano nel cuore blindato di Genova, in Macedonia le armi riprendevano il sopravvento sul dialogo. Quasi ad avvalorare l'idea che in fondo i Balcani siano "altro" rispetto ai processi della globalizzazione, un'area di crisi certamente nell'agenda del G8 ma rispetto alla quale l'impegno e il disimpegno delle maggiori potenze industrializzate del pianeta venisse misurato sul piano militare piuttosto che nella malcelata idea che in quell'area ognuno gioca per sé.Un mondo a parte, per usare l'espressione di Gustaw Herling, rimasto tale anche dopo l'89 per la funzionalità della destabilizzazione ai processi di accumulazione senza regole e di finanziarizzazione dell'economia. Oppure per non turbare schemi consolidati e pigrizie culturali.
Il fatto è che nel tempo della globalizzazione i tradizionali punti cardinali hanno assunto un significato diverso, il mondo non è più diviso fra nord e sud, fra paesi ricchi e paesi poveri o impoveriti. Nella "globalizzazione reale" si sono delocalizzate le disuguaglianze e le grandi contraddizioni del presente per cui il sud è nel nord e viceversa, est e ovest si confondono (nel rincorrere il mercato, tanto per fare un esempio). E dentro questa nuova dislocazione a-spaziale e a-temporale delle economie (ma per non sbagliarsi sostenuto da un accentuato controllo politico e militare nelle aree considerate strategiche), il sud est europeo assume un ruolo tutto particolare (e indicibile), tutt'altro che favorevole alla prospettiva dell'integrazione europea.
Di questa partita, che fa dei Balcani uno dei simboli della modernità, non sembra affatto esserci consapevolezza. Evidentemente, dieci anni di guerra e di deregolazione selvaggia nell'est europeo non sono serviti a mettere a fuoco il significato profondo di quegli avvenimenti.
Un ritardo di analisi che sembra prevalere anche nei commenti che dai paesi dell'area balcanica vengono sul summit di Genova, dall'atteggiamento che emerge dai media bosniaci, quasi a rivendicare col cappello in mano la possibilità di essere parte di un processo del quale non ci si accorge di essere (ahimè) protagonisti; all'approccio quasi rancoroso dei media croati, dopo aver preso atto che la quarantena durerà ancora a lungo, affidandosi nel giudizio sul vertice del G8 - non senza ipocrisia - alla critica vaticana verso il mondo dei ricchi; al più maturo e distaccato atteggiamento dei media serbi, dove prevale una lettura più politica e fortemente critica verso la natura di una globalizzazione concepita come strumento di delegittimazione delle sovranità nazionali.
Ne esce un quadro che se riflette molto bene gli stati d'animo dei contesti nazionali, non sembra percepire che nei Balcani la globalizzazione è il presente ed ha la faccia che abbiamo conosciuto nella tragedia balcanica di questi anni. Una riflessione che deve investire anche lo stesso movimento "no global", che purtroppo poco ha coinvolto finora i possibili interlocutori del sud est Europa.
Eppure nei Balcani esistono già gruppi e associazioni della società civile che in questi anni si sono attivati sul piano del dissenso alla guerra e alle politiche di regime, della difesa dei diritti dei gruppi socialmente ed economicamente più deboli, della difesa dell'ambiente, benché solo una piccola rappresentanza di essi partecipi alla rete che da Seattle a Genova ha raccolto le molte anime critiche verso questa globalizzazione. Qualcosa dunque comincia a muoversi, tanto che negli ultimi giorni in Croazia si è costituito il movimento HAG anti-global.
Anche nel ragionamento sui temi della globalizzazione è dunque possibile immaginare un percorso comune "dal basso" che rompa l'isolamento dei Balcani dall'Europa e dal resto del mondo. E anche a partire da quest'ultima considerazione nasce la proposta di collocare qui, in una delle grandi capitali dell'est europeo, una delle prossime sessioni del World Social Forum.

Fonti: Lino Veljak da Zagabria, Ada Sostaric da Belgrado, Dario Terzic da Mostar

Ordinaria globalizzazione

16/06/2001 -  Michele Nardelli

C'è un luogo dove le dinamiche della globalizzazione si esprimono in forme anticipatorie tanto da farne uno snodo emblematico di indagine sulla post modernità. E che si tende ad ignorare, un po' perché la rimozione è il tratto caratteristico del nostro rapporto con questa parte d'Europa tanto diversa e ricca di civiltà e intrecci culturali, un po' perché non rientra negli schemi semplificati ai quali ci ha abituato il '900.

La lettura degli avvenimenti balcanici degli ultimi dieci anni come il prodotto di arcaici risentimenti nazionali ed etnici, quanto meno superficiale, ha contribuito a non far cogliere appieno il segno di questa moderna tragedia nel cuore dell'Europa. Certo, dieci anni di guerre non si spiegano senza una base ampia di consenso ed il richiamo nazionalistico ha avuto esattamente questa funzione. Così il disegno di una nomenklatura che decide di succedere a se stessa, può anche essere considerato il colpo di coda nell'agonia dei vecchi regimi, ma questa semplificazione non aiuta certo a capire.

C'è qualcosa di terribilmente moderno nelle vicende che hanno segnato i Balcani degli anni '90, che ha a che vedere con le dinamiche della globalizzazione nella crisi degli stati, nel prevalere della dimensione finanziaria dell'economia, nel controllo dei corridoi strategici fra l'Europa, il Caucaso e l'Oriente, nella sperimentazione dei più sofisticati sistemi d'arma e nell'intreccio fra deregolazione e neoliberismo. Uno scenario nel quale non possiamo non rispecchiarci.

Anche le maschere di questo tragico giuoco, che hanno interpretato al meglio il ruolo loro assegnato di croupier di un'immensa area off shore dove l'unica regola è la corruzione, assomigliano in maniera inquietante a certe maschere di casa nostra. Come dovrebbe far riflettere che a certe cancellerie occidentali personaggi come Milosevic fossero più funzionali di Kostunica, Karadzic di Dodik o di Ivanic, Tudjman di Racan, e così via.

È come se con la fine del bipolarismo si fosse aperta un'enorme voragine in grado di funzionare come fattore di attrazione di illimitati traffici ed affari, dove allocare i santuari dell'accumulazione finanziaria. Il che dovrebbe far riflettere sulla natura di chi ha vinto la partita del secolo scorso, come del resto sull'annebbiamento delle coscienze lasciato in eredità dai regimi.

Non è affatto casuale che gli industriali del nord est si riuniscano non a Treviso ma a Timisoara, in Romania, laddove 7203 imprese italiane imperversano nello sfruttamento di manodopera a costo zero, nell'assenza di regole né ambientali, né tanto meno sociali. O che i Balcani siano diventati lo snodo dei traffici più criminali, armi, droga, sigarette, per non parlare del traffiking di donne e bambini, del riciclaggio del denaro sporco, in un intreccio fra economia legale ed illegale dai contorni sempre più sfumati.

Così come non è per nulla casuale che i paesi dell'est europeo stiano diventando la pattumiera di un modello di sviluppo immorale, dissipativo ed insostenibile. All'eclatante decisione del parlamento russo di trasformare la Siberia in un'immensa discarica nucleare, corrispondono i mille episodi, solo in minima parte conosciuti, di trasformazione dei vecchi siti minerari di quella che un tempo era la Jugoslavia in altrettanti depositi di scorie tossiche e radioattive provenienti da ogni parte del mondo.

Deregolazione e povertà, poteri mafiosi e corruzione, sono gli ingredienti attraverso i quali l'altra metà dell'Europa viene inclusa ed esclusa al tempo stesso. Un immenso casinò, dove si gioca sul presente e sul futuro di un'umanità annichilita dalle macerie del comunismo e delle guerre, comprese quelle "umanitarie", compreso il "circo umanitario" che spesso le segue, altrettanto invasivo ed insostenibile. Pensare che non ci ricada addosso è solamente irresponsabile.
La globalizzazione non è un'astrazione ideologica, è il nostro presente. Capirne gli effetti è importante quanto contestarne le rappresentazioni.