ombra di un uomo che cammina © Alex Linch/Shutterstock

© Alex Linch/Shutterstock

Le difficoltà del lavoro nei media, la fragilità dello status di rifugiato: storia di un giornalista che lo stato turco voleva per sé

31/05/2023 -  Dimitri Bettoni

Shadi Türk è un giornalista siriano. Giunto in Turchia nel 2009 con un permesso di studio, con lo scoppio del conflitto ha cominciato a collaborare con media locali e stranieri per raccontare le atrocità della guerra, le condizioni dei rifugiati, l’evoluzione della storia. Grazie ai contatti in patria e a quelli maturati nel corso del lavoro, Shadi si trova presto ben inserito nel contesto giornalistico così come in quello della comunità siriana che vive in Turchia. Partecipa ai gruppi di coordinamento e supporto giornalistici e, quando non lavora come reporter, spesso aiuta i colleghi a districarsi in un contesto tutt’altro che semplice: fa il lavoro del fixer, che affianca il giornalista occupandosi di contatti, logistica, consigli. La sua famiglia vive nel sud est del paese, vicino al confine con la Siria.

Nell’aprile 2021 arriva la prima chiamata: Shadi viene avvicinato da esponenti del MIT, i servizi segreti turchi, che vogliono incontrarlo. Per un cittadino della Siria, un contatto con uomini dei servizi segreti rievoca sensazioni e ricordi brutali. Nel suo caso, si aggiunge tutta la fragilità di un permesso di soggiorno in Turchia che può essere facilmente revocato. Nei successivi incontri, avvenuti a Istanbul, il MIT mette in chiaro i termini della faccenda. Shadi è un’ospite in Turchia, collaborare con loro è un atto di dovuta riconoscenza: "Fintanto che lavoro come giornalista in Turchia, sono obbligato a condividere i dettagli del mio lavoro con il governo" le parole che Shadi racconta gli vengono rivolte. Le richieste inizialmente riguardano il suo lavoro, poi includono sempre più le attività e gli spostamenti di altri colleghi, ma anche di personalità politiche di spicco presenti ad incontri a cui Shadi, come giornalista, può presenziare. Tra queste richieste c’è quella di partecipare, nell’aprile del 2022, a un incontro a porte chiuse tra l’Associazione per i media stranieri (FMA) e il capo della delegazione dell'UE in Turchia, Nikolaus Meyer-Landrut.

Shadi è spaventato, inizialmente prova a gestire la situazione passando informazioni irrilevanti ed eludendo le richieste sulla scelta delle storie da raccontare, con chi lavorare o rivelare informazioni sui colleghi, richieste irricevibili per un giornalista. Presto però, si accorge che non c’è uscita dalla spirale in cui l’hanno stretto: “Durante nove incontri con agenti del MIT nell'arco di un anno, sono stato sotto pressione per condividere le informazioni in mio possesso con gli agenti e raccoglierne di nuove. Al mio rifiuto, sono stato esplicitamente minacciato di reclusione, deportazione in Siria, sparizione”.

Shadi, sotto enorme pressione e stress psicologico, abbandona il lavoro giornalistico, si trasferisce nel sud, lungo la costa mediterranea, dove comincia il suo addestramento come sub nella speranza di suscitare disinteresse nei servizi segreti. Così non avviene, tanto da ricevere nuove richieste di incontro: “Vedo che stai meglio. Ti aspettiamo ad Istanbul”. Capisce che il suo tempo in Turchia è finito, e così quello della sua famiglia, per la quale teme ritorsioni.

Shadi si rivolge a diverse organizzazioni internazionali e tramite queste a corpi diplomatici europei, con un’unica richiesta: far uscire lui e la famiglia sani e salvi dal paese. Un appello che però resta inascoltato. Le cancellerie europee interpellate non si attivano, tergiversano, nonostante chi lo sostiene nella mediazione con i governi europei tenti di spiegare come la situazione sia un pericolo soprattutto per Shadi e per la famiglia, ma anche per tutti i colleghi che lavorano nel paese. Nel mentre, la situazione si fa per Shadi sempre più soffocante. Stretto all’angolo, riesce ad ottenere un visto per l’oriente asiatico, lascia la Turchia a dicembre 2022, destinazione Filippine. Di lì a poco, le autorità turche lo dichiareranno minaccia alla sicurezza nazionale e revocheranno i suoi documenti di soggiorno.

Shadi tenta una nuova, disperata mossa per smuovere le acque, coinvolgere l’opinione pubblica e attirare così l’attenzione e l’aiuto europeo. Rilascia una lunga intervista alla rivista tedesca Taz, dove racconta tutta la sua storia. Pochi giorni dopo, i media di stato turchi pubblicano una serie di articoli che ribaltano il racconto: secondo la loro versione, Shadi è una spia dell’occidente con la missione di sovvertire la pace tra rifugiati siriani e stato turco. Vengono pubblicati dettagli personali e fotografie che rendono lui e la famiglia bersaglio di rivalse.

Oggi Shadi è ancora in attesa di un aiuto che può venire soltanto dal riconoscimento del suo status di giornalista perseguitato, accordando a lui e alla famiglia non solo la protezione dovuta ad un giornalista, ma anche la possibilità di un nuovo inizio, di una vita al sicuro. Perché è così che i servizi segreti possono distruggere la vita di un giornalista.

 

Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del Media Freedom Rapid Response (MFRR), cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea.

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