Due banconote, rispettivamente da cento e cinquanta dinari serbi

Banconote da cento e cinquanta dinari serbi (© muratologia/Shutterstock)

Nonostante le pompose dichiarazioni del presidente serbo Aleksandar Vučić sulla solidità economica della Serbia post Covid19, suffragate dal ministro delle Finanze, la situazione presenta più di una fragilità

09/06/2020 -  Giovanni Vale Zagabria

L’economia serba è "la migliore d’Europa". Le previsioni economiche che accompagnano la fase due della lotta alla pandemia (e che annunciano un’imminente crisi a livello globale) sembrano aver portato la Serbia sul tetto del mondo. Questa, perlomeno, è l’interpretazione dei dati fatta dal presidente serbo Aleksandar Vučić. In una conferenza stampa tenutasi ad inizio maggio, il capo di stato ha infatti annunciato che "quest’anno, saremo il primo paese europeo per tasso di crescita e uno dei migliori in tutto il mondo". "La Serbia deve abituarsi ad essere la migliore d’Europa", gli ha fatto eco il ministro delle Finanze ed ex sindaco di Belgrado Siniša Mali. Inutile dire che, in verità, le cose non stanno proprio così.

Un recente articolo di Balkan Insight mette le affermazioni di Vučić e Mali nella giusta prospettiva, intervistando alcuni analisti economici serbi. Ne emerge che, se da un lato è vero che la Serbia registrerà nel 2020 una decrescita del PIL di “solo” il 3–4% (a seconda dello studio che si considera) contro il 7–9% di altri paesi (tra cui Germania, Francia e Italia), dall’altro lato è vero anche che questa vittoria relativa nasconde comunque delle fragilità (oltre al fatto, più ovvio che confrontare delle percentuali non è necessariamente una buona idea). L’impatto del lockdown sull’economia di un paese dipende da molte variabili, che vanno dall’importanza del turismo e dei servizi, allo sviluppo del commercio internazionale, passando per il livello di connessione di un paese con le altre economie. Qual è dunque il contesto della Serbia?

Un’economia differenziata

Innanzitutto una premessa. L’ultima missione del Fondo monetario internazionale (FMI) a Belgrado si è conclusa il 28 febbraio 2020, quando il coronavirus era già un problema mondiale, anche se non ancora considerato ufficialmente una pandemia (lo sarà a partire dal 12 marzo). Nonostante questo, il rapporto dell’FMI conferma “l’outlook macroeconomico positivo [per la Serbia, ndr.] per il 2020, con una proiezione di crescita del 4% del PIL”, sulla scia della “performance robusta del 2019, con una crescita stimata del 4,2%”. Qualche settimana più tardi, quell’analisi è da buttare. Questo per dire che vale la pena di prendere tutte le proiezioni (anche quelle citate qui di seguito) con le dovute precauzioni.

L’economia serba si presenta come abbastanza differenziata, ovvero senza la presenza di un settore responsabile di una grossa fetta del prodotto interno lordo. Lo spaccato del PIL presentato dall’ufficio statistico di Belgrado mostra infatti la contribuzione di diversi settori. Su un PIL di circa 51 miliardi di dollari (40 volte inferiore a quello italiano, per tornare sul discorso delle percentuali di cui sopra…), l’industria automobilistica e dell’acciaio assicura assieme alla produzione di energia elettrica (perlopiù a carbone) un quinto del PIL. Agricoltura, edilizia rappresentano ciascuna il 6%, mentre le attività commerciali producono il 17% del PIL, poco più del settore pubblico e di Difesa che vale l’11%.

Questa «base larga» che sostiene l’economia serba è senza dubbio un punto di forza, come nota anche la Commissione europea nel suo rapporto trimestrale dell’autunno scorso. Diversamente da paesi come la Croazia o la Grecia che dipendono molto dal turismo (che vi rappresenta almeno un quinto del PIL), la Serbia reagirà dunque in modo più flessibile alle conseguenze della pandemia. Ciò non significa però che la repubblica balcanica non dipenda dal resto del mondo, al contrario. "A causa della sua apertura nel commercio, l’economia serba sarà duramente colpita dalla contrazione della domanda esterna provocata dal COVID–19", puntualizza l’ultimo rapporto della Commissione europea per la primavera 2020 .

Investimenti diretti esteri

Non solo importazioni ed esportazioni saranno limitate nel 2020, ma il clima di incertezza potrebbe colpire anche un altro motore della recente crescita serba: gli investimenti diretti esteri, il fiore all’occhiello della politica economia di Vučić. Nel 2019, le autorità di Belgrado si erano rallegrate di aver fatto del paese "il campione mondiale degli investimenti esteri". Il governo citava allora il rapporto annuale di “fDi Intelligence” , un’agenzia di consulenza che fa parte del gruppo editoriale del Financial Times. Il rapporto 2019 piazzava effettivamente la Serbia in cima a una classifica mondiale, obbligando Balkan Insight ad un altro articolo di contestualizzazione e di fact checking.

Senza entrare nel merito di quello studio e della contro analisi di Balkan Insight, quello che ci interessa qui è notare che negli ultimi anni la Serbia ha saputo attirare un numero crescente di FDI, o investimenti diretti esteri. Dall’acciaieria di Smederevo comprata dai cinesi nel 2016 all’aeroporto di Belgrado concesso alla francese Vinci nel 2018, passando per il passaggio di mano di diverse banche, molte realtà economiche della Serbia sono state coinvolte in investimenti esteri che ne hanno cambiato la proprietà o la gestione. Dal punto di vista nominale, questi capitali contribuiscono certamente ad alimentare la crescita dell’economia serba, ma il loro contributo di lungo termine è davvero positivo?

Le critiche alla politica di attrazione ad ogni costo degli FDI non mancano, in Serbia e altrove. Un recente studio della Fondazione Rosa Luxemburg di Belgrado, ad esempio, critica i costi sociali dell’operazione, accusando l’esecutivo serbo di vendere la manodopera nazionale a basso prezzo in cambio di investimenti che portano in ultima istanza i profitti fuori dai confini nazionali. Ma non serve essere marxisti per dubitare dello stato di salute della crescita economica serba degli ultimi anni. Eurostat nota ad esempio che, nel 2017, il 20% più ricco della popolazione serba ha guadagnato 9,4 volte più del 20% più povero, facendo della Serbia il paese con il più alto livello di disuguaglianza tra quelli considerati (gli EU–28 più i paesi candidati all’adesione).

I numeri della crescita nascondono insomma fatti contraddittori.

Futuro prossimo

Che cosa succederà ora in Serbia? Per quanto valgano le previsioni, le organizzazioni internazionali sono concordi nel pronosticare una recessione nel 2020 di circa il –4%, seguita da una crescita del 6% nel 2021. La migliore recessione d’Europa, direbbe Vučić (sorvolando sul fatto che la stessa Commissione europea parla di “elevata incertezza” quando descrive il futuro economico della Serbia). Stando a questo scenario, ad ogni modo, ci si aspetta un indebitamento maggiore da parte dello stato (a tassi di interesse peraltro più alti, fa notare il quotidiano serbo Danas ), che dovrà sopperire alla momentanea mancanza di domanda interna e esterna e ai ridotti investimenti, mentre la povertà - avverte la Banca mondiale , quasi con prudenza - “potrebbe crescere”.

Sul lungo termine, tuttavia, il discorso è un altro. Privatizzazioni e investimenti diretti esteri hanno dato negli ultimi anni molte occasioni all’uomo di forte di Belgrado per tagliare nastri d’inaugurazione e celebrare sinergie internazionali, ma come in altri paesi della regione, un movimento più discreto (ma costante) sembra raccontare un futuro meno radioso. È l’emigrazione, accompagnata da una mancanza di immigrazione e dal basso tasso di natalità. Secondo le stime dell’ufficio statistico di Belgrado , tra pochi anni la Serbia avrà lo stesso numero di abitanti che aveva nel 1950. E tra trent’anni, il paese conterà 5,7 milioni di abitanti, ovvero quasi un quarto in meno di quanti ne registrava nel 1989.

Sembra impossibile, eppure i serbi stanno abbandonando il paese che dovrebbe "abituarsi ad essere il migliore d’Europa".

 

Questo articolo è stato pubblicato in anteprima per gli abbonati di Obct il 5 giugno 2020


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