Come prestigiatori, tentavano la fuga nascosti in bagagliai, camion, controsoffitti di treni e persino aeroplani. La storia delle fughe dalla Romania comunista

19/10/2016 -  Marina ConstantinoiuIstvan Deak

(Originariamente pubblicato in romeno da miscareaderezistenta.ro  il 6 giugno 2016. Questo articolo è il terzo di una serie di inchieste realizzata nell'ambito del progetto "Reporters in the field", finanziato dalla Robert Bosch Stiftung, in collaborazione con Berliner Journalisten Schule. Alcuni di questi articoli vengono ora proposti anche ai lettori di OBC Transeuropa)

Erano decine, centinaia. Pianificavano la fuga in dettaglio, rischiando molto. Ma la maggior parte di loro non rimpiange la decisione di allora, perché vivere in un regime comunista non era vita per loro. La questione è descritta nel dettaglio nei registri della polizia politica negli stati comunisti, in questo caso la Securitate romena e la Stasi della Germania Est.

Sceneggiatura di una fuga

Leggere i registri è come leggere una sceneggiatura, dettagliata fotogramma per fotogramma. I protagonisti non sono solo disertori romeni, ma anche tedeschi dell'est che cercavano di raggiungere il mondo libero attraversando la rotta romeno-jugoslava.

Quest'inchiesta ha lo scopo di ricordare tutte quelle persone che hanno tentato di fuggire dal comunismo, che ce l'abbiano fatta o che abbiano trovato la morte nel tentativo.

La maggior parte dei disertori cercava di attraversare a nuoto il Danubio o a piedi il confine, ben lontano dai check-point ufficiali, ma altri affrontavano i controlli nascosti in bagagliai, controsoffitti di treni, camion, aerei di servizio o addirittura ambulanze.

Un turista italiano e una disertrice romena

Uno di questi casi è descritto nel file n. I 286.477 negli archivi della CNSAS romena: Demele Wenzel Francisc, sacerdote cattolico di Orţişoara e Jimbolia, fuggito dalla Romania nel 1980, insieme ad altre 23 persone stipate in un'ambulanza.

Un episodio analogo è documentato in un album fotografico della CNSAS, che rievoca il tentativo di fuga di Elena Joica, una donna di Ramnicu Valcea, chiusa in un bagagliaio. Il 16 settembre 1966, il cittadino italiano Rolando Rachelli arrivava al valico di frontiera di Stamora Moraviţa alla guida della sua Innocenti Austin. Gli agenti controllarono i suoi documenti, ma anche la sua auto. Aprendo il bagagliaio, sotto due valigie e una tela, trovarono Joica, che Rachelli stava tentando di portare in Italia, via Jugoslavia.

Rachelli, nato nel 1930 in Romania, aveva lasciato il paese insieme alla sua famiglia nel 1948, stabilendosi a Milano. Joica faceva parte dell'Unione della gioventù comunista.

Sfiorare la morte

Per quanto stravagante possa apparire questo caso, non fu l'unico. Negli archivi CNSAS è ricostruito anche il caso di Gerlinde Lang, 21 anni, che tentò di attraversare il confine nascosta nel bagagliaio della vettura guidata dal cittadino tedesco occidentale Franz Wetzenrath Franz. Era la notte del 24 giugno 1982 quando le guardie di frontiera la trovarono. Molte persone invece ce l'hanno fatta e risiedono ora in tutto il mondo.

La costruzione del muro di Berlino nel 1961 chiuse un varco ai tedeschi dell'est, che cercarono quindi altri confini da attraversare. A seguito di un accordo del 1972, la diserzione dei tedeschi dell'est si trasformò in un business redditizio, poiché la Germania Est aveva concordato con la Romania e la Jugoslavia la restituzione dei disertori in vita, in modo da poterli vendere alla Germania Ovest. Le Nazioni Unite pagavano però alla Jugoslavia importanti somme di denaro, circa 25-30 dollari a notte a persona, perché non estradasse i cittadini di altri paesi comunisti che cercavano di fuggire in Occidente. Si diceva anche che la Romania avesse promesso alla Jugoslavia un vagone pieno di sale per ogni disertore fermato e rispedito in Romania.

Un piano segreto

O., ora sessantenne, fuggita dalla Repubblica democratica tedesca nel 1971. Studiava ancora presso l'Università di Berlino ed era stata promossa capo della propaganda nell'organizzazione studentesca. Il suo ragazzo, che studiava a Rostock, era stato promosso ad una posizione simile, ma allo stesso tempo era stato anche ricattato perché diventasse un informatore per la Stasi. Alcuni amici della coppia che vivevano nella Germania occidentale li aiutarono a fuggire.

Tennero le carte coperte, tacendo le proprie intenzioni alle rispettive famiglie. La pianificazione, principalmente ad opera degli amici occidentali, durò diversi mesi. Partirono in treno da Praga e via Budapest raggiunsero la Romania, dove tentarono di attraversare il confine con la Jugoslavia, dal momento che i controlli si diceva fossero più lassi su quel confine. Avevano pensato di falsificare i documenti, ma i loro amici avevano altro in mente. Trasformarono la zona motore di due auto in modo da poter nascondere una persona e trovarono due autisti disposti a rischiare e portarli oltre il confine, naturalmente dietro corresponsione di un lauto compenso. I due si nascosero nelle rispettive auto, dirette al check-point. Entrambe le vetture furono perquisite: O. fu trovata e arrestata insieme al suo autista, il suo ragazzo e il suo autista passarono.

"Che sviluppo! Io in prigione in Romania, mio marito libero in Occidente! È stato uno shock per me: la Romania era sotto un regime totalitario, povera e con un sistema carcerario inadeguato. Le condizioni erano misere: una cella stretta, con sei posti letto per 12 donne; lo sgabello che fungeva da toilette veniva lavato una volta alla settimana; lavoravamo 12 ore al giorno sotto un sole implacabile. Due settimane dopo ci fu il processo; fu condotto in romeno e non mi venne tradotta nemmeno la sentenza", ricorda la donna.

E continua: "Eravamo in 30 fuggiaschi, tutti condannati nello stesso momento. Ma, dal momento che la Romania era interessata al denaro che potevamo procurare, mi diedero un periodo di reclusione di 18 mesi trasformabile in una multa di 10.000 marchi tedeschi. I miei amici inviarono immediatamente il denaro e mi trovai libera ma, per ironia della sorte, ancora in Romania", ricorda O. nelle sue memorie, archiviate su un sito web che raccoglie le testimonianze di ex prigionieri politici nella Repubblica democratica di Germania, kollektives-gedaechtnis.de.

O. tentò di nuovo di attraversare il confine romeno-jugoslavo, ma questa volta a piedi, di notte. Erano in quattro. Attraversarono una fitta nebbia, percorrendo un campo di grano, e poi oltre le recinzioni di filo spinato; riuscirono ad evitare le guardie di confine e i loro cani, i loro amici aspettavano in auto dall'altra parte del confine. Ben presto raggiunsero l'ambasciata della Germania occidentale a Belgrado e ottennero i documenti temporanei per raggiungere il paese attraverso l'Austria. La loro destinazione finale era il campo profughi di Giessen, dove la loro identità fu verificata e ricevettero documenti validi.

"Tutto nella vita ha un prezzo"

Molte persone che affrontarono questo calvario per raggiungere l'Occidente rimasero sconvolte quando, dall'altra parte, non trovarono il paradiso. Ecco perché è necessario chiedere loro se è valsa la pena di correre tutti quei rischi e lasciarsi tutto alle spalle, famiglia e amici compresi.

"Ne è valsa la pena. Volevamo avere la libertà di scegliere che lavoro fare, di viaggiare, di leggere, senza restrizioni. Non abbiamo rimpianti. Tutto nella vita ha un prezzo, ma rimanere avrebbe avuto un prezzo troppo caro per noi. Saremmo stati costretti a far parte della macchina della propaganda. So anche di persone che non si sono adattate al loro nuovo ambiente una volta in Occidente, soffrendo la nostalgia. Non tutti hanno potuto avere le possibilità e le risorse per pianificare una fuga come la nostra, ma io sono contenta di averle avute", dice oggi la signora O..


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