Just about my fingers

Aveva raccontato su OBC il suo viaggio sulle tracce di Mussa Khan, la difficile strada dei "muhajirin" afghani e del loro sogno chiamato "Europa". Ha poi deciso di tornare in Grecia per narrare la loro storia in video. Ne è nato "Just about my fingers", documentario che ha recentemente vinto il premio "Yalla Italia 2013". Paolo Martino ci rivela come è nato il film

30/10/2013 -  Paolo Martino

Il telefono squillò nella calma di una notte di fine marzo. “Hey man.” Rahell chiamava da un numero italiano. “Sono sbarcato qualche ora fa.” Appena un saluto, prima di restituire il telefono al poliziotto che lo stava identificando. “La traversata è durata ventiquattro ore, ma ci hanno scoperti poco prima che riuscissimo a sbarcare.” Il tono era calmo, la soddisfazione contenuta. “Peccato, mi stanno prendendo le impronte digitali proprio adesso.”

Quella non si annunciava come una primavera qualunque. Era la primavera di Tunisi, di Tahrir, del tempo nuovo di Damasco, del caldo fecondo di Tripoli. Da Beirut a Casablanca lo scorrere dolce dei giorni di marzo piantava i suoi semi a sud del Mediterraneo.

Mentre il mondo arabo nutriva il sogno, in Europa tutto restava uguale. L’Italia dormiente, procedurale, baluardo meridionale della Fortezza Europa, era ancor più spaventata dall’idea che i nuovi arrivati fossero anche i nuovi rivoluzionari, grida di una coscienza sopita in un Vecchio Continente ormai decrepito.

Rahell aveva passato un anno intero tra i moli di Igoumenitsa, una cittadina caotica e stanca come il paese in cui sorge. “L’unico motivo per cui esiste la Grecia è per mettere più chilometri tra casa nostra e l’Europa”, mi disse un giorno un tassista curdo che da sei mesi provava a imbarcarsi clandestinamente per l’Italia. “Siamo la categoria più in basso dell’umanità. Chi è a Igoumenitsa non può pagarsi neanche un trafficante che lo porti dall’altra parte.” Sua unica colpa e condanna era di avere un fratello “sulle montagne”, come diceva lui. Ovvero nel PKK. L’Adriatico gli respirava prepotente sotto i piedi, sul molo da cui faceva dondolare le gambe come un bambino. L’orizzonte invalicabile si gonfiava di onde grigie.

La più lunga primavera del Mediterraneo lanciò alla fine un raggio di sole anche su Rahell, quando trovò i soldi per imbarcarsi su una nave da diporto pilotata da un trafficante greco. Li chiese alla zia, quella che negli anni ‘90 era fuggita in Svezia, e che lui stava cercando di raggiungere. Lei voleva darglieli dall’inizio, fin da quando era stato costretto a fuggire da Damasco perché perseguitato dal regime. Ma Rahell non voleva debiti di riconoscenza. Si mise in cammino, e in due settimane percorse l’immensa distanza che separa Damasco dall’Adriatico. Poi, proprio quando l’Europa era così vicina, il Purgatorio. Un solo giorno a Igoumenitsa convincerebbe chiunque a telefonare a una zia pronta a dare una mano. Lui si convinse dopo un anno.

Mussa Khan partiva dall’Afghanistan, ma nei discorsi non dava alcun peso ai chilometri che si lasciava alle spalle. Parlava di quello che lo aspettava, dei cugini in Europa, degli anni a venire, degli spettacolari tornei di calcio inglese e del Grande Ignoto Blu. “I marocchini e gli algerini sanno nuotare, qualche africano anche. Gli hazara no, i pashtun no. I curdi neanche. Gli iraniani no.” Mussa metteva ordine nella lista dei popoli che aveva conosciuto nel suo viaggio appuntandoli sulle dita. La geografia che aveva imparato viaggiando distingueva la famiglia umana in due sole categorie: chi si tiene a galla e chi no. E così il mondo intero, il suo mondo, entrava nella gerarchia contenuta dentro una mano sola.

Le strade di Mussa e di Rahell si incontrarono in Grecia, e così fu per la mia. Mi insegnarono a muovermi nella giungla di Igoumenitsa, a cercare lì dentro le tracce della Frontiera umana, a racchiuderle dentro una videocamera. Imparai che la prigione europea dei migranti forzati del terzo millennio mette l’uomo al mondo senza filtri. A Igoumenitsa non c’è tecnologia, proprietà privata, scansione del tempo. Lontano dalle abitudini dell’umanità formale maturava un’umanità immediata, abitata da vite che non aspettano riconoscimento, vere per il solo fatto di esistere.

Reportage Mussa Khan 

Mesi, anni, sempre in cammino. Respinti, invisibili, ai margini. E' questo il destino dei muhajirin (rifugiati) afgani, alla tenace ricerca di un sogno chiamato "Europa". Mussa Khan è uno di loro. La sua storia è quella dei tanti che ogni anno percorrono migliaia di chilometri per fare domanda di asilo nei paesi dell'Unione europea. Segui la sua storia

Poi Mussa Khan svanì. La prigionia greca gli portò via l’anima, rispedendola al sogno da cui era partita. “Succede a tanti. Implodono, rifiutano l’idea che il mondo sia davvero quello in cui viviamo.” Rahell invece ha portato il suo corpo minato dal viaggio al di qua di quel mare. “Ne ho incontrati tanti come Mussa. A un certo punto spariscono, come una pausa dal viaggio della vita.” In Italia, vincolato dal regolamento di Dublino alle sue impronte digitali, Rahell ha tempo per pensare. Come ne aveva a Igoumenitsa, isolato dal mondo mentre nel suo paese cresceva la rivolta popolare, ma con più rammarico per essere ormai giunto senza aver trovato una meta.

Quando tornai a Igoumenitsa per girare Just About my Fingers, Mussa non c’era già più. Forse era in una cella, come tocca prima o poi a tutti quelli che hanno il coraggio di affrontare il mondo. Rahell invece era seduto sul bordo dell’autostrada all’entrata del porto, insieme alle centinaia di ragazzi che aspettavano i camion a cui appendersi. Fu lui a vedermi per primo, anche se da lontano avevo avuto tanto tempo per cercarlo. La verità è che non lo riconobbi, prosciugato nel fisico dai duri mesi di lotta contro il Bene Comune, la Sicurezza, la Giustizia.

Prima di corrergli incontro restai fermo a guardare quella massa umana venuta da lontano. Subumani, esseri smagriti che come vermi strisciavano sotto gli autotreni per appendersi alla vita con la forza delle braccia. Riempivano la notte con scoppi di risate, con fragori di bestemmie, rinnegati dal tempo e dallo spazio. Poco prima che Rahell mi accogliesse in quella meravigliosa comunità per la seconda volta, fiero del suo posto al mondo, realizzai che in quell’atto d’umiltà, fine alla vita, mi accingevo a filmare una dichiarazione di smisurato amore per essa, testimonianza di verità contenuta in quei corpi spediti al mondo senza destinazione.

Poi venne la resa dei conti. Igoumenitsa non sopravvisse a lungo a Rahell e a Mussa Khan. Quei moli sono stati sostituiti da nuove gettate di cemento, grigie come il futuro europeo, moncherini sterili della politica migratoria dell’Unione. Il mare ulula come un tempo nelle notti di Igoumenitsa, ma nessuno è più in ascolto.

Nel vuoto di quei moli agonizza la più grande speranza di rivoluzione al di qua del Mediterraneo. Nel rifiuto dell’esistenza clandestina, manifestazione esaltante di sacralità della vita, si accascia il vecchio mondo. Nel timore del destino di uomini pronti a darsi a un viaggio folle per averlo, l’Europa saluta al passaggio dei loro corpi la fine del suo stesso mandato.

Il resto appartiene alle storie che non saranno raccontate: al diario che Rahell seppellì a Igoumenitsa prima di andarsene; ai pensieri di Mussa Khan, svaniti insieme a lui; al sogno di chi è rimasto sui fondali del Mediterraneo, consegnato per sempre al Viaggio.

 

"Per il coraggio di aver scelto di raccontare e denunciare l’odissea che vivono i richiedenti asilo nel raggiungere le nostre coste. Per la sensibilità e la capacità di affrontare un tema di grande attualità che coinvolge tutta l’Europa e il suo rapporto con i popoli della riva sud del Mediterraneo". Questa la motivazione della giuria del Premio Yalla Italia assegnato a Paolo Martino con il documentario "Just about my fingers".


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