L'eurodeputata Sophie in't Veld

Esigenti con i paesi aspiranti all'adesione, inefficaci rispetto agli stati membri. Le istituzioni Ue hanno un problema coi diritti fondamentali. Un approfondimento

10/01/2017 -  Alberto Tagliapietra

“L'Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza, dello stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini.”

Lo sancisce l'articolo 2 del Trattato sull'Unione Europea (TUE) e proprio per l'importanza che i diritti fondamentali rivestono nell'architettura dell'Ue il 25 ottobre scorso il Parlamento europeo ha approvato alcune raccomandazioni indirizzate alla Commissione europea per la creazione di un meccanismo a tutela della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti fondamentali in seno all'Unione, che ha preso il nome di "Patto DSD ".

Il lungo percorso che ha portato all'adozione della proposta ha come precedenti le raccomandazioni formulate dal Parlamento e indirizzate ad alcuni stati membri, a partire dalla risoluzione adottata nei confronti dell'Ungheria nel 2013 in reazione alle riforme costituzionali e alle modifiche apportate alla legislazione sui media adottate dal governo Orban.

Con un approccio più sistemico, la commissione parlamentare per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (LIBE) si è rivolta alla Commissione europea con la risoluzione del 10 giugno 2015 invitandola a presentare "una proposta legislativa per l'istituzione di un meccanismo UE in materia di democrazia, stato di diritto e diritti fondamentali, come strumento per il rispetto e l'applicazione della Carta e dei trattati siglati da tutti gli Stati membri, fondato su indicatori comuni e obiettivi".

La risoluzione votata dal parlamento a fine ottobre auspica ora la creazione di un comitato composto da esperti (Comitato DSD), incaricato di redigere una relazione annuale sulla democrazia, lo stato di diritto e i diritti fondamentali negli stati membri aggiungendo poi delle raccomandazioni specifiche per ogni stato membro su aspetti ritenuti di particolare rilevanza come la separazione dei poteri, la libertà e il pluralismo dei mezzi di informazione, l'uguaglianza di fronte alla legge, la lotta alla corruzione e il conflitto d'interesse.

In un’ottica di cooperazione e sussidiarietà tra le istituzioni europee, il meccanismo prevede una stretta collaborazione tra di esse: una volta reso pubblico il quadro valutativo del Comitato DSD, ne dovrà dibattere sia il Parlamento europeo, adottando una successiva risoluzione, sia il Consiglio dell’Unione Europea. Nel caso in cui, a partire dal quadro di valutazione, dovesse emergere una situazione particolarmente critica la Commissione potrà decidere di avviare una procedura di ‘infrazione sistemica’, come previsto dall’art. 7 del TUE.

Il Parlamento inoltre ha auspicato anche la revisione dell'articolo 7 del TUE allo scopo di rendere più efficaci le sanzioni contro gli stati membri che si rendessero responsabili di violazioni sistematiche dei diritti fondamentali, comprendendo sanzioni pecuniarie o la sospensione di finanziamenti dell'Unione Europea.

Quale la situazione sino ad ora?

L'Unione è priva di un meccanismo che garantisca efficacia alla protezione dei diritti fondamentali all'interno degli stati membri. L'unico modo per procedere contro uno stato che non rispetti questi fondamentali diritti è la procedura riconosciuta dal sopracitato articolo 7 del TUE, la quale indica che su proposta motivata di un terzo degli stati membri, del Parlamento europeo o della Commissione europea, il Consiglio dell'Unione Europea può constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave da parte di uno stato membro dei valori riconosciuti nell'articolo 2 del Trattato. In questo caso, prima di procedere con la constatazione, il Consiglio ascolta lo stato membro in questione e può rivolgergli delle raccomandazioni. Qualora le raccomandazioni non vengano ascoltate e il paese interessato non intervenga con contromisure, il Consiglio può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo stato membro dall'applicazione dei trattati, come ad esempio il diritto di voto al Consiglio stesso.

Questa procedura non è però mai stata attivata.

Un punto su cui anche il testo di proposta della riforma proposto dalla Commissione LIBE si è soffermato è la disparità fra il trattamento riservato ai futuri paesi membri è gli stati che già fanno parte dell'Ue: “Il mancato rispetto delle norme applicabili da parte di un paese candidato ha l'effetto di ritardare l'adesione all'Unione, mentre il mancato rispetto delle stesse norme da parte di uno stato membro o istituzione dell'Unione ha scarse conseguenze pratiche”, aggiungendo ‘le istituzioni e gli organi dell'Unione nonché i suoi stati membri dovrebbero dare l'esempio assolvendo concretamente ai propri obblighi e adoperarsi per plasmare una cultura condivisa dello stato di diritto quale valore universale nei 28 stati membri e nelle istituzioni dell'UE”.

Il caso Polonia

Nel documento redatto dalla commissione LIBE, tra le motivazioni che hanno spinto alla proposta di riforma si indicano “i recenti sviluppi in alcuni stati membri” che “hanno dimostrato come il mancato rispetto dello stato di diritto e dei valori fondamentali non sia adeguatamente affrontato”. Emerge dunque come in Europa siano numerose le situazioni che stanno destando preoccupazione dal punto di vista della protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali: un chiaro esempio è il caso polacco.

La situazione polacca si caratterizza per una seria minaccia allo stato di diritto nel paese, che ha preso avvio quando il governo guidato dal partito populista Diritto e giustizia (PIS) si è rifiutato di riconoscere i giudici della Corte costituzionale eletti dal parlamento della precedente legislatura. Ha proposto inoltre una controversa riforma costituzionale - ancora in fase di approvazione - che andrebbe secondo molti analisti a limitare l'attività della Corte stessa, facendo vacillare il fondamentale principio della separazione dei poteri.

L’Unione europea ha tentato di aprire un dialogo con il governo polacco, il 27 luglio scorso il Parlamento europeo aveva approvato una risoluzione in cui invitava il paese a risolvere entro 3 mesi, dunque entro il 27 ottobre, la crisi costituzionale. La Polonia ha risposto nell'ultimo giorno a sua disposizione, respingendo le raccomandazioni dell'Europarlamento sulla tutela dello stato di diritto in quanto “non vede la possibilità legale di metterle in atto”, inoltre nel documento si sostiene che le raccomandazioni del PE "sono basate sull'infondata tesi del ruolo preminente della corte costituzionale nell'assicurare lo stato di diritto".

Questo caso esemplare mostra come l'Unione Europea, per come è articolata attualmente, non riesca ad ottenere gli stessi risultati quando tratta di democrazia o di diritti fondamentali rispetto a quando tratta di materie economiche o fiscali. Troppo spesso infatti i tentativi di far presente agli stati membri i propri impegni si scontrano con una certa reticenza o con il rifiuto di questi ultimi di riconoscere le norme stabilite di comune accordo.

L'introduzione del Comitato DSD dedicato al monitoraggio della democrazia, dei diritti e delle libertà fondamentali sarà di aiuto, come lo sarà l'introduzione annuale di un dibattito in seno all'Europarlamento che, oltre a dare l'opportunità di fare luce sulla situazione generale nell'Unione europea permetterà, come evidenziato dall'eurodeputata Sophie in't Veld, tra le protagoniste dell'iniziativa, di creare una cultura della democrazia, dello stato di diritto e dei diritti fondamentali tra i paesi membri dell’UE.

Tocca ora alla Commissione europea, entro il settembre 2017, redigere un progetto per la creazione di un "Patto sulla democrazia, lo stato di diritto e i diritti fondamentali". Quest'ultimo dovrà poi passare di nuovo al vaglio del Parlamento e soprattutto del Consiglio europeo, dove gli stessi stati membri dovranno dare il via libera. Ci si augura quindi che, perlomeno entro il 2018, quest'iniziativa possa iniziare ad essere implementata.

 

Questa pubblicazione/traduzione è stata prodotta nell'ambito del progetto Il parlamento dei diritti, cofinanziato dall'Unione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea.


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