Turchia - Ani, chiesa del Redentore

Turchia - Ani, chiesa del Redentore foto di P.Martino

Lande desolate, dove i contrafforti del Caucaso scendono a scaloni verso l'altopiano anatolico e i nomi, più che dalla storia, vengono dati dalla politica. La sesta puntata del reportage "Dal Caucaso a Beirut"

03/08/2012 -  Paolo Martino

Il doganiere apre controvoglia una fessura nel finestrino della garitta. A terra, un tappeto di neve fresca inghiotte i passi, mentre la luce del giorno precipita insieme ai fiocchi. “Your car?” Dove fino a venti anni fa si erigeva la Cortina di ferro, resta oggi un doganiere infreddolito. “No car.” Con la punta del dito il soldato traccia sul vetro la distanza dal valico di frontiera al primo villaggio: POSOF, 14 KM. Quattordici chilometri di marcia. Fa segno di dormire lì, le mani congiunte sotto la guancia. “No, thank you.” Il timbro batte sordo su pagina trentaquattro del passaporto: VALE BORDER POINT, 6/11/2011. “Welcome to Turkey, mister.” Gli stringo la mano prima che la ritiri nel torpore della garitta e resto fino a notte fonda solo con lo scricchiolio della neve vergine sotto gli scarponi. E' il pianto postumo della Cortina di ferro.

Nacqui a Kars,

la mia patria fu il mondo

Jeghishe Charentz, poeta armeno

Turchia nord-orientale. I contrafforti del Caucaso scendono a scaloni verso l'altopiano anatolico, lo smisurato pascolo delle greggi d'angora, regno delle dinastie curde, corridoio e valvola tra continenti che si fronteggiano. La strada che da Yerevan porta a Beirut serpeggia tra lande innevate a cui la politica, più delle storia, è impegnata ad assegnare nomi. Turchia orientale, come indicata sull'atlante; Kurdistan, come la chiamano gli uomini e le donne che la abitano; Armenia occidentale, secondo il verbo della diaspora armena. La scrupolosa toponomastica rivela l'aspirazione di dominare una terra che appartiene solo al vento.

Kars appare in fondo a un rettifilo d'asfalto, unica fantasia nella morfologia monotona dell'altopiano. Sotto controllo russo fino al 1917, il Kars Oblast attirò un flusso costante di armeni, molti dei quali sopravvissuti al genocidio. Quando la rivoluzione d'Ottobre richiamò i contingenti stazionati nelle periferie dell'Impero, gli armeni presero il controllo della città, integrandola nella Repubblica democratica di Armenia. Fino al 1920, quando l'avanzata turca fagocitò metà del territorio del neonato Stato armeno, Kars fu capoluogo della provincia armena di Vanand. Oggi, lo sventolio di un'immensa bandiera rossa con la mezzaluna e la stella spezza dall'alto della fortezza il grigio metallico del cielo.

Dal mio diario.

Un binario si lancia deciso nella prateria verso est, senza mai curvare per una settantina di chilometri fino all'Armenia. Un'ora di viaggio, se non fosse che il confine tra i due paesi è chiuso da vent'anni. Il 6 luglio 1993, quando i turchi lo sbarrarono, i ferrovieri di entrambi i paesi si domandarono cosa avrebbero fatto delle locomotive rimaste intrappolate dal lato sbagliato del filo spinato. Costruita nel 1899, questa fu per tutto il secolo successivo l'unica via ferrata tra NATO e Unione sovietica, arteria pulsante di uomini e merci tra i due blocchi che si dividevano il mondo. Io, per arrivare da Yerevan a qui, ho impiegato tre giorni di autobus, taxi, marce forzate attraverso valichi solitari e gole innevate del Caucaso.

Kars, resti chiesa armena

Kars, resti chiesa armena foto P.Martino

Una frenata inchioda l'autobus alle porte di Kars. Otto militari guardano i passeggeri fissi negli occhi, i polpastrelli sfiorano i grilletti dei fucili puntati ad altezza uomo. L'ufficiale che controlla i documenti urla un nominativo, scandendone ogni sillaba. L'appello echeggia nell'autobus come una scossa elettrica. Un ragazzo sfila nel corridoio incrociando sguardi di pietà. Ammanettato dietro la schiena, sparisce sommesso nel vano del furgone cellulare, tra altri prigionieri. L'autobus riprende la marcia e l'uomo al mio fianco scrolla le spalle: “Turkish Jandarma”. Appunto quel nome, che ancora rimbomba nella testa. I. M. Un nome curdo.

Dalla sommità della fortezza la macchina fotografica fatica a mettere a fuoco la periferia di Kars, sospesa tra nebbia e prateria. Netta, ai piedi del castello, è invece l'immagine della cattedrale armena dei Dodici apostoli. Trasformata in museo negli anni '60, poi in moschea, lasciata infine a se stessa, la chiesa è integra, sebbene abbandonata all'incuria. Tornano alla mente le parole di Rafi, l'amico armeno figlio della diaspora: “Dappertutto gli armeni costruiscono scuole e chiese, poi spariscono”. Pronunciata a Beirut, la frase tradiva ammirazione per la causa curda in Turchia, per il loro non andarsene, per la tenace rivendicazione autonomista di questo popolo. Prima che la storia voltasse faccia agli armeni, un secolo fa, le due minoranze vivevano fianco a fianco in questa regione, parte di un impero multietnico che si estendeva dai Balcani al Golfo Persico. “Presto o tardi – aggiungeva Rafi – i curdi avranno un loro Stato in Anatolia. Noi col tempo stiamo sparendo anche dal Medio Oriente”.

Le giornate scorrono senza conversazioni all'alba dell'inverno curdo. Tra i banchi di spezie e frutta secca del bazar si attardano pastori, manovali, mercanti, contadini, anziani in abiti tradizionali: salvar curdi e gilè scuri su camicie bianche, caffetani persiani, féz di lana cotta, tarbush venati d'oro. La varietà delle vesti e dei tratti umani di questo lembo di confine rimanda alla ricchezza linguistica di un tempo. Armeno, turco, zazà, kurmanji, russo, un pentagramma di lingue ridotto dalla politica centralizzatrice di Ankara al battente monolinguismo turco.

Ani. Le mura della più grande capitale armena di tutti i tempi non circondano più nulla. Il portone a sesto acuto ricavato tra i bastioni, sagomati dal vento più che dall'uomo, è il trompe l'œil che immette nel costante ripetersi dell'altopiano. Abbandonata gradualmente a partire dal sedicesimo secolo, Ani coi suoi centocinquantamila abitanti competeva per splendore e fama con Baghdad, Istanbul, Pechino. Carovane persiane e arabe scambiavano merci nelle sue piazze, pellegrini bizantini, armeni e russi pregavano nei suoi santuari, rotte caucasiche e asiatiche deviavano pur di varcare i suoi portoni. Oggi, tra queste gelide macerie, le uniche tracce di vita sono grandi bovini che pascolano sulla storia armena e un giovane pastore curdo che le governa col bastone e fantasiosi richiami.

L'apparente continuità del terreno si spezza man mano che avanzo su ciò che fu l'asse commerciale della città. Mentre all'orizzonte sfilano le sagome della moschea di Menüçehr, della Cattedrale, delle chiese del Redentore e di San Gregorio, l'altopiano è improvvisamente inghiottito da orridi ventosi. In basso, come una gigantesca cicatrice, il letto del fiume Arax sancisce il limite orientale di Ani. Oltre il canyon, nuovamente pianeggiante e in quota, l'Armenia osserva le rovine a cuore aperto della sua antica capitale, da lontano. Dal 1920 il fiume segna il confine tra i due paesi. A nulla valsero, dopo la guerra turco-armena, le preghiere di lasciare almeno quel chilometro quadrato al controllo armeno. La sovranità, oggi come allora, non è un fatto di cortesia.

Dal mio diario.

In questo punto dell'altopiano, dove il cielo non è meno concreto della terra, è la volta celeste a dar forma alle cose. Ani, battuta dal vento e dalla solitudine, non concede facilmente le sue spoglie. Come può essere questa la terra che nutre il mito del ritorno della diaspora? Ma quando il sole sparisce dietro il profilo basso dell'orizzonte, lasciando in eredità una secrezione di rosso, l'acciaio del cielo inizia a fondere e Ani cambia colore, passando dal grigio alla porpora. I monumenti tornano in qualche modo all'eternità per cui furono pensati, prima che il secolare lavorio umano venisse meno. In questo tempo immobile il fantasma del popolo deportato torna a popolarla, avverando la profezia di Sarop. E la solitudine si trasforma in privilegio.

L'autobus per Igdir punta a meridione. Di notte l'altopiano pulsa di luce propria, un calor bianco che dal profilo innevato dei monti cola a valle scaldando la pianura. La strada si snoda in questo prato di luce. Stanotte Beirut è ancora lontana, ma ne sento sempre meno la mancanza.


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