Gru sullo stretto del Bosforo (chengtzf)

Nell'area post-Jugoslava la Turchia di Erdoğan sembra proporsi come "piano B". Ma quant'è concreta questa strada alternativa all'Unione europea?

12/02/2018 -  Alfredo Sasso

Il recente vertice trilaterale di Istanbul e l’iniziativa di Erdoğan sulla strada Sarajevo-Belgrado hanno risollevato l’interesse sul ruolo della Turchia nella regione post-jugoslava e, in particolare, dell’evoluzione dei rapporti con Serbia e Bosnia Erzegovina. Nell’ultimo decennio gli analisti hanno parlato spesso di una tendenza “neo-ottomana” della Turchia nei Balcani, sottolineando i rapporti privilegiati con i musulmani bosniaci e il soft power nel campo della cultura, dell’istruzione e dei media. In tempi più recenti però, soprattutto per le pressioni della guerra in Siria e dei problemi interni post-golpe, le ambizioni della Turchia nella regione appaiono più contenute, improntate al pragmatismo più che all’attivismo strategico ispirato durante il mandato dell’ormai ex-ministro degli Esteri turco Davutoğlu.

In questa linea si sono però rinsaldati i legami con la Serbia, come dimostrato dalla visita ufficiale di Erdoğan a Belgrado nel novembre 2017, accompagnato da circa 200 investitori turchi, con sul tavolo la firma di accordi commerciali e il progetto di Turkish Stream, gasdotto russo-turco che attraverserebbe la Serbia. Il volume commerciale tra i due paesi è in aumento, ora attorno agli 800 milioni di dollari e trainato dall’industria metallurgica che occupa circa il 50% delle esportazioni serbe in Turchia (dati OEC 2016 ) e con investimenti crescenti nel settore tessile e alimentare.

La sinergia sulla costruzione della strada Sarajevo-Belgrado, e in particolare la disponibilità di Ankara ad accettare la proposta serba di variante est, via Višegrad-Užice (parallelamente alla variante nord-est appoggiata dalla Bosnia Erzegovina) va anche letta nell’ottica dei crescenti interessi della Turchia in Serbia centro-meridionale, particolarmente nell’area di Kraljevo e nella regione del Sangiaccato. Quest’ultimo è abitato in maggioranza da una comunità serba-musulmana con profondi rapporti culturali e di emigrazione con la Turchia. Erdoğan ha visitato in pompa magna Novi Pazar nel 2017 (come già fece nel 2010), presentandosi come leader pan-musulmano e incontrando una certa condiscendenza da parte del presidente serbo Vučić, che aveva enfaticamente commentato “Non è più il 1389, siamo paesi amici”.

Come ha spiegato in una recente intervista il politologo Dejan Jović, ogni paese dei Balcani cerca di mantenere diversi “piani B” aperti, qualora le priorità della propria politica internazionale (nel caso di Belgrado, l’equilibrismo tra integrazione UE e vicinanza con la Russia) possano incontrare ostacoli e l’orientamento di Bruxelles verso i Balcani occidentali possa cambiare.

La cooperazione tra Serbia e Turchia sembra funzionare anche per casi molto più oscuri come quello di Cevdet Ayaz , un attivista curdo che aveva chiesto asilo politico alla Serbia. Le autorità di Belgrado, in sinergia con Ankara, hanno estradato Ayaz in Turchia nel dicembre scorso, ignorando così la richiesta da parte del Comitato ONU contro la tortura, nonché la decisione del Tribunale della Corte Europea del 2006 che affermava l’ingiusta detenzione e le torture subite da Ayaz in Turchia, un caso che ha scatenato le proteste delle organizzazioni serbe per i diritti umani.

Ankara-Sarajevo: molta turcofilia, poca economia

Rimangono invece statici i rapporti commerciali tra Ankara e Sarajevo, dopo la crescita degli anni Duemila. Nel 2016 la Turchia è stata l’ottavo paese per volume commerciale con la Bosnia Erzegovina, con poco più del 4,1%, ben dietro a Germania (13,5%), Italia (11,8%), Serbia (10,3%) e Croazia (10,1%) e per una cifra totale di 556 milioni di euro, dunque ormai di molto inferiore a quello Serbia-Turchia (dati Agencija za statistiku BiH ). Per investimenti diretti in Bosnia Erzegovina, Ankara è al nono posto con 15.3 milioni di euro, circa il 5.5% del totale, quando la leader Croazia è a 61 milioni (22%), seguita dall’Austria con 38 e dagli Emirati Arabi con quasi 34 (12%), e altri paesi musulmani investono in maggiore o uguale misura (Arabia Saudita, 17.4 milioni; Kuwait, 15.1. Dati Banca Centrale BiH ). Come già rilevato da diversi osservatori, al di là delle affinità storico-culturali e tra le élite politiche, la Bosnia Erzegovina rimane poco attrattiva per gli investitori turchi, frenati dagli ostacoli legali e dalle ridotte prospettive di mercato.

Se le relazioni commerciali non decollano, restano molto forti quelle tra le élite politiche musulmano-conservatrici dei due paesi. Un profondo rapporto “ideologico-emotivo” (definizione del filosofo sarajevese Enver Kazaz) permane tra la leadership dell’SDA bosgnacco e quella dell’AKP turco, che ai primi serve per presentare una protezione internazionale al proprio elettorato (un’“autocolonizzazione” turcofila, parallela alla russofilia dei serbo-bosniaci e alla germanofilia dei croato-bosniaci) e ai secondi come proiezione esterna dei propri valori morali e storico-culturali.

Questo reciproco legame paternalistico si esprime al massimo nella comune sacralizzazione della figura di Alija Izetbegović. Proprio in queste settimane la televisione nazionale turca TRT sta trasmettendo una serie sulla vita dell’ex-presidente bosniaco, con una produzione imponente e tinte agiografiche, alla cui première hanno assistito Erdoğan, il figlio e attuale membro della presidenza Bakir Izetbegović e altri membri dell’establishment bosgnacco. Si dice che la serie sarà trasmessa in Bosnia Erzegovina a ridosso delle elezioni previste per l’ottobre prossimo, in quello che sarebbe l’ennesimo sostegno reciproco in periodi elettorali tra i due apparati.

Proprio il voto del prossimo autunno, però, potrebbe aprire nuove incognite. Bakir Izetbegović, avendo completato due mandati, non potrà ricandidarsi alla presidenza collettiva della Bosnia Erzegovina e potrebbe perdere la leadership dentro l’SDA, attraversato da profonde lotte interne di potere. La gestione discrezionale e personalista di Izetbegović crea sempre più insofferenza, dentro e fuori dal partito. Lo stesso comportamento di Izetbegović all’incontro trilaterale di Istanbul è stato bollato dai critici come un uso privato delle istituzioni in quanto, come membro della presidenza collettiva a rotazione (e al cui capo, al momento, vi è il croato-bosniaco Dragan Čović), avrebbe dovuto quantomeno consultare formalmente i suoi omologhi. Questo atteggiamento verso le istituzioni confermerebbe così che la Bosnia Erzegovina non ha una politica estera coerente.

Poche settimane prima, a inizio gennaio, l’AKP turco dichiarava l’intenzione di aprire sedi di rappresentanza in diversi paesi mondiali, tra cui la Bosnia Erzegovina. Una mossa che sarebbe coerente con gli sforzi di Erdoğan per cercare nuovi interlocutori tra l’élite conservatrice bosgnacca in vista del possibile declino di Izetbegović e degli scenari incerti per il paese nell’anno elettorale.


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